L’era dei barbudos si conclude, ma solo per ragioni ritrattistiche e anagrafiche. Il Partito comunista cubano sceglie come successore alla presidenza di Raúl Castro un fedele seguace, da cui non ci si aspettano sorprese. Si chiama Miguel Díaz-Canel, ed è un ingegnere elettronico formatosi nelle file del partito, già vicepresidente della nazione dal 2013. Mai una sbavatura, nessuna deviazione dal tracciato. In un mondo soggetto a spinte entropiche, sorprende che Cuba, con la sua travagliata storia, sia finora riuscita, nonostante le inevitabili aperture ibride all’economia di mercato e alla circolazione di persone, a mantenere una struttura monopartitica al fondo solida e che si presenta al cambio generazionale con le idee chiare e una successione guidata. Una successione di provenienza civile, aspetto che ben si adatta alla stabilizzazione istituzionale del processo rivoluzionario, e che segna una separazione con gli apparati militari che controllano importanti segmenti dell’economia, primo fra tutti il turismo (10% del Pil cubano). Questa è la maggiore novità in seno alla nuova presidenza della Repubblica.



Già nel suo primo discorso Díaz-Canel ha infatti dichiarato che Raúl Castro sarà ben più di una semplice guida spirituale: le decisioni sulla conduzione del sistema paese saranno prese insieme e Rául manterrà il ruolo di segretario del Partito Comunista sino al 2021. Del resto è dal 1976 che i Castro ricoprono indefessamente la carica di presidente della Repubblica e, mentre il nipote di Fídel e figlio di Rául, Alejandro, si sta facendo le ossa gestendo per ora la scelte strategiche in materia di investimenti esteri sul suolo cubano, il gotha del partito sceglie una figura rassicurante in grado di mantenere saldo l’interregno.  



Il tema centrale dell’amministrazione sarà capire come fronteggiare i problemi economici che stanno caratterizzando il paese. L’economia cubana cresce al ritmo più basso da oltre 20 anni e non è mai stata così debole dal cosiddetto Período Especial, momento nel quale, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, Cuba si è trovata a subire una contrazione dell’export e conseguentemente a razionare alimenti e combustibile per la popolazione. Oggi i problemi risiedono nel basso costo delle materie prime come zucchero e nichel, che incidono inevitabilmente sulle entrate dello Stato, e in seconda battuta nell’indebolimento del sostegno dell’alleato venezuelano, che dei fasti del socialismo siglo XXI conserva ormai solo un lontano ricordo.



Nell’ultimo decennio l’invio del petrolio venezuelano verso Cuba (arrivato sino a 115mila barili al giorno) è caduto del 40%. Anche in questa condizione il valore del petrolio venezuelano è un asset importante per Cuba e la mancanza in prospettiva di combustibile sovvenzionato potrebbe portare il governo a dover imporre una nuova politica economica. 

Questa fase di ridefinizione non è propriamente una novità: da oltre un decennio il governo cubano ha timidamente introdotto l’apertura alle imprese private e agli investimenti stranieri sul territorio. Non si tratta certamente di rendere Cuba un’economia di mercato, ma questi tentativi si infiltrano nell’economia pianificata e la adattano ai sistemi globali. Il passaggio si reputava più rapido sotto l’era del disgelo, pur contraddittoria, inaugurata dall’amministrazione Obama e ora è certamente più controverso, così come lo sono tutti i rapporti tra gli Usa e i suoi vicini in America Latina.

In questi ultimi 10 anni la quantità di cubani che lavorano autonomamente è quadruplicata, tuttavia il Partito Comunista non vuole ancora cedere il monopolio delle imprese statali a soggetti privati. In particolare non vuole competitors, ma sta cercando partner, che però tardano ad affacciarsi. 

Questo per via dell’annoso problema dei salari governativi (un medico che lavora per lo stato ha un salario estremamente inferiore — si aggira intorno ai 60 euro — degli operatori del circuito turistico, in primis i taxisti) e del doppio binario monetario (peso cubano nel quale si denominano i prezzi e i salari locali, e peso convertibile utilizzato per le transazioni commerciali) che aspettano una risoluzione ormai per troppo tempo rimandata. L’unificazione della moneta è un passo imprescindibile per permettere le riforme economiche e rendere il paese più attrattivo all’investimento estero.

Su questo fronte, forse, la figura di Díaz-Canel, pur dichiaratamente antiimperialista, potrebbe essere utilizzata come ponte: il nuovo presidente non fa parte dell’establishment rivoluzionario e non deve mantenere promesse storiche e viso barbudo.