22 milioni a rischio fame, di cui più di 8 milioni già in condizioni estremamente precarie, 2 milioni di sfollati, quasi 9mila morti a causa della guerra, cui si aggiungono più di 2mila morti per l’epidemia di colera, che ha colpito l’anno scorso più di un milione di persone. L’epidemia è aggravata dalla distruzione di più del 50 per cento delle strutture sanitarie e dalla difficoltà di far giungere i soccorsi, sia per il conflitto in corso, sia per il blocco dei porti. I bambini sono tra i più colpiti dalla crisi umanitaria e dal conflitto in corso, utilizzati anche come soldati dalle milizie Houthi. Questi sono i dati dell’Onu dopo tre anni di guerra in Yemen, nella quale si contrappongono diverse fazioni interne: i ribelli sciiti Houthi, appoggiati dall’Iran, i sostenitori dell’attuale governo del presidente Hadi, affiancati dai sauditi, quelli del precedente presidente, Saleh, e diverse milizie jihadiste, tra cui particolarmente pericolose quelle collegate ad al Qaeda.
Inizialmente alleato con gli Houthi contro Hadi, alla fine dello scorso anno Saleh ha preso contatti con i sauditi per giungere a un accordo e la reazione degli Houthi ha portato alla sua uccisione mentre stava lasciando la capitale Sana’a. Anche il campo avverso è diviso e all’inizio dell’anno si sono avuti scontri tra i sostenitori di Hadi e il movimento separatista del Sud, che ha occupato gli uffici governativi in Aden, residenza del governo dopo la sua cacciata dalla capitale Sana’a occupata dai ribelli sciiti. Aden, strategicamente importante per i traffici tra Suez e l’Oriente, dopo l’indipendenza dal dominio britannico, rimase una repubblica ad orientamento marxista fino al 1990, quando fu riunificata con lo Yemen del Nord, presidente Saleh.
Le due fazioni sunnite che si sono recentemente scontrate sono sostenute — rispettivamente — Hadi dai sauditi, e i separatisti del Sud dagli Emirati Arabi Uniti, preoccupati per l’influenza esercitata dalla Fratellanza musulmana sul governo in carica. Questa frattura rischia di riflettersi sulla coalizione internazionale costituita per combattere i ribelli e per restaurare il governo Hadi. Arabia Saudita ed Emirati sono il perno della coalizione, appoggiata anche dagli Stati Uniti, sia pure senza un intervento diretto. Trump ha confermato l’alleanza stretta con i sauditi dal suo predecessore, ma a differenza di Obama, che aveva firmato il trattato sul nucleare con l’Iran, considera Teheran come uno dei principali nemici. Ciò lo porta a una posizione ancora più acritica nei confronti dei sauditi.
La caotica e tragica situazione dello Yemen, una delle tante originate dalle “primavere arabe”, ha molti punti in comune con quella siriana e sta
provocando importanti reazioni negli Stati Uniti. Un gruppo di senatori di entrambi i partiti ha chiesto che l’amministrazione intervenga su Riyadh per far cessare i bombardamenti indiscriminati, che stanno causando un numero intollerabile di vittime civili. I senatori chiedono anche l’avvio di colloqui di pace, come sta tentando di fare da anni l’Onu senza successo, per l’indisponibilità delle parti in lotta.
Anche diverse Ong si stanno muovendo per limitare, o regolare più rigorosamente, l’invio di armi all’Arabia Saudita, i cui maggiori fornitori sono Usa e Regno Unito. In quest’ultimo Paese, Campaign Against Arms Trade ha impugnato presso la Corte di Appello una precedente sentenza che aveva dichiarato legale la vendita di armi ai sauditi. L’organizzazione sottolinea che si tratta di una questione legale, oltre che morale, perché la legislazione britannica vieta la vendita di armi in presenza di violazione dei diritti umani.
Come riportato dal sussidiario, una simile causa è stata intentata in Italia da tre Ong (una italiana, una yemenita e la terza tedesca) contro il ministero degli Esteri italiano e la filiale di una società tedesca. Di fronte a un traffico di armi che vale parecchi miliardi di euro (nel caso inglese si parla di più di 5 miliardi di euro), può suonare strano che si metta sul banco degli accusati una società che fattura qualche milione di euro. La vendita ai sauditi di armi della Rwm avvenne quando era ministro degli Esteri l’attuale presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, e forse la debolezza del governo uscente ha favorito l’azione legale. O forse si pensa che i nostri magistrati siano più sensibili a questo riguardo rispetto a quelli inglesi o tedeschi (la casa madre della Rwm è tedesca), per non parlare degli americani. Il Guardian, nel riportare la notizia, suggerisce un’altra spiegazione: finora le cause non hanno avuto successo perché contro il commercio di armi in generale. In questo caso, invece, si fa riferimento a un preciso bombardamento e a vittime specifiche, tra cui quattro bambini. L’azione, inoltre, è contro singoli funzionari del ministero degli Esteri e, con questa “personalizzazione” della causa, si spera di poter incriminare i produttori delle armi, anche se autorizzati alla loro vendita.
Al di là degli esiti, queste azioni possono aiutare a rimettere al centro dell’attenzione i tragici eventi yemeniti e quelli, ancor più tragici, siriani. Tuttavia, senza un serio ripensamento dei capi di governo coinvolti, non vi è motivo di sperare che la situazione cambi, a meno che si moltiplichino iniziative come quelle dei senatori americani. In fondo, il problema reale non riguarda la produzione e il commercio delle armi, ma il loro uso, e gli sforzi dovrebbero essere rivolti a far sì che rimangano il più possibile inutilizzate. Ma questo è compito dei politici.