Alcuni media britannici hanno titolato “Imploding Isis” per descrivere giornalisticamente l’operazione congiunta delle forze di polizia americana e europea contro i mezzi di comunicazione online degli jihadisti; un “cyber strike” che secondo quanto riportano le agenzie di sicurezza internazionali ha incrinato pesantemente la capacità della rete terroristica di espandere la propria attività di proselitismo sul web e non solo. 



Sono state colpite infatti Amaq, la nota rivista virtuale di Isis che abbiamo imparato a conoscere per via delle copertine con la bandiera nera sul Colosseo o San Pietro, radio al-Bayan e i siti di informazione Halumu e Nashir che fungono da teste di ponte cibernetiche fra i canali della propaganda e i destinatari finali. La capacità di Isis di diffondere informazioni e proselitismo jihadista, spiegano i responsabili di Europol, è compromessa. Un ottimo segnale questo, sicuramente, ma rimane da valutare quanti danni siano stati fatti finora e quali capacità abbia lo stato islamico, o quanto ne rimane di riorganizzarsi in relazione alla comunicazione. 



Partiamo dagli effetti nefasti che il proselitismo online ha causato su giovani e seconde generazioni in Occidente e in Medio oriente; è la prima volta che si combatte una guerra cibernetica globale e organizzata con l’esposizione continua e massiccia a contenuti sul web inneggianti al jihad, filmati, foto cruente, discorsi di sedicenti imam, indottrinatori e salafiti di alto livello. Oltre a esponenti criminali nel vero senso della parola. Chiamate virtuali (che poi diventano reali) alle armi hanno fatto sì che una generazione si sia radicalizzata in profondità, in maniera autonoma e senza alcun filtro che non fosse quello di una tastiera e di uno schermo. Informazioni che poi, quasi in un meccanismo infernale, venivano (e spesso vengono ancora) rilanciate in maniera quasi robotica dai media occidentali. Un effetto moltiplicatore che Isis e i suoi canali di comunicazione online hanno sfruttato a piene mani.



Questa mega operazione di Europol e polizia americana arriva dopo la chiusura da parte di Twitter e Facebook di migliaia di account jihadisti, ma si può star certi che non basterà, almeno nell’immediato. Perché il proselitismo jihadista nello stile della Fratellanza musulmana riceve costantemente finanziamenti di enorme portata dagli Stati canaglia, specialmente dal Qatar tramite le sue fondazioni e i suoi personaggi dall’opacità inquietante. L’intervista dell’ex ambasciatore russo in Qatar, Vladimir Titorenko, che a Russia Today Channel ha reso noto come il primo ministro qatarino ai tempi della primavera araba Hamad bin Jassem abbia confermato il coinvolgimento di Doha nel provocare la caduta del regime di Gheddafi, Mubarak e Assad, altro non fa se non certificare questi meccanismi. 

Dunque non c’è alcun dubbio che il tentativo di riorganizzare i mezzi di comunicazione sul web di cyber-proselitismo non si farà attendere, e c’è il rischio che esso porti anche risultati di un certo rilievo, viste le somme che da quelle latitudini affluiscono ancora senza che nessuno riesca ancora a reciderle di netto. Anche in questo caso, come per le moschee fai-da-te e per gli imam fai-da-te, il concetto di fondo è sempre lo stesso: niente soldi, niente jihad. Senza fondi esteri e coperture ad alto livello non si fa guerriglia jihadista ma non si fa nemmeno proselitismo. Quello virtuale meno che mai. Prosciugando i pozzi, solo così si stacca progressivamente la spina all’avanzata della Fratellanza islamista verso la conquista dell’Occidente.