Di fronte ai recenti avvenimenti al confine tra Israele e la Striscia di Gaza è difficile, anche per chi non è ostile a Israele, non esprimere un giudizio di condanna. Gli episodi di violenza, a quanto pare limitati, da parte di manifestanti palestinesi non giustificano la reazione dell’esercito israeliano che ha portato a 18 morti e centinaia di feriti da armi da fuoco. Né paiono essere stati violati i confini dello Stato di Israele e i circa 30mila dimostranti sono rimasti lontani dalla barriera che separa Israele da Gaza. Anche diversi media israeliani hanno giudicato la reazione dell’esercito comunque sproporzionata ed eccessiva e vi sono state in Israele manifestazioni di condanna da parte di movimenti di sinistra.



Lascia perplessi anche il rifiuto del governo israeliano alla richiesta dell’Onu di condurre un’indagine indipendente su fatti, avvenuti fuori del territorio israeliano e quindi assoggettabili a un’inchiesta internazionale. Il governo israeliano rafforza così l’impressione di essere caduto in una sanguinosa trappola ordita da Hamas per isolare Israele.



Questi tragici eventi potrebbero essere interpretati come l’esito di una involuzione in atto sia tra i palestinesi che in Israele. I morti del Venerdì Santo potrebbero servire non solo ad Hamas, ma anche a Netanyahu, accreditandolo come “uomo forte” che difende l’integrità dei confini di Israele, che anzi estende con la politica degli insediamenti. Una posizione lontana da quella dei governi israeliani che portarono, venticinque anni fa, agli accordi di Oslo del 1993 con l’Olp di Arafat. Questi accordi non furono riconosciuti da Hamas e dal Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, che volevano la cancellazione di Israele. Furono osteggiati anche dalla destra e dai partiti religiosi israeliani e nel 1995 Yitschak Rabin, il Primo ministro israeliano che li aveva firmati, fu assassinato da un estremista ebreo.



Da allora il processo di pace si è non solo fermato, ma ha fatto passi indietro. L’abbandono unilaterale da parte di Israele della Striscia di Gaza nel 2005, dopo il violento conflitto con al Fatah, ha portato al governo Hamas. Gli islamisti di Hamas hanno continuato la guerra contro Israele, mentre i laici di al Fatah, che governano la Cisgiordania, sia pure con difficoltà, hanno continuato le trattative con il governo israeliano. I rapporti tra i due movimenti palestinesi sono pessimi e i recenti tentativi di un riavvicinamento, sostenuto in particolare dall’Egitto che si sente minacciato dalle fazioni estreme di Hamas, sono miseramente falliti con l’attentato nello scorso marzo al convoglio del primo ministro palestinese, esponente di Fatah, in visita a Gaza.

Le divisioni in Hamas tra politici e militari e la difficile posizione personale di Netanyahu, sotto inchiesta per corruzione, portano a un’ulteriore radicalizzazione della situazione. Questo scenario favorisce gli estremisti di entrambe le parti, contrari alla soluzione dei due Stati, gli uni in favore di un unico Stato palestinese senza ebrei o con gli ebrei in netta minoranza, gli altri in favore di uno Stato ebraico “puro” e più allargato possibile.

Emergono anche nette le responsabilità degli ultimi presidenti degli Stati Uniti, molto più inerti di fronte alla decennale questione palestinese di quanto fosse Bill Clinton, sponsor degli accordi di Oslo e del fallito tentativo di Camp David nel 2000. In particolare, Obama si è allontanato dalla tradizionale vicinanza americana a Israele, ma la sua apertura, fin dal suo discorso al Cairo del 2008, a movimenti come la Fratellanza musulmana, referente di Hamas, non ha portato ad alcun risultato. Trump ha ripreso la politica di alleanza con Israele, ma la sua opposizione agli accordi con l’Iran e la decisione di spostare l’ambasciata Usa a Gerusalemme hanno rafforzato gli estremisti di tutte le parti in causa. E il conto continua ad essere pagato da quei tanti palestinesi e israeliani che vorrebbero vivere in pace.