La settimana scorsa, per iniziativa della Russia, si è svolta a L’Aja presso la sede dell’Opcw una conferenza che ha demolito le tesi del presunto incidente chimico di Douma. 17 testimoni presenti nel luogo del preteso attacco chimico hanno chiarito che è stato frutto di una messinscena per provocare l’intervento occidentale. 



Tra gli interventi, di particolare rilievo è stato quello di Ahmad al Saur, il medico dell’ospedale della città di Douma che ha trattato le persone arrivate nel pronto soccorso. Egli ha confermato di aver esaminato i pazienti e di non aver trovato sintomi di avvelenamento da sostanze chimiche. Analoga testimonianza è stata rilasciata da Ahmad Kashoy, il direttore dell’ospedale e da tutti gli altri testimoni, compreso l’undicenne Assan Diab, usato dai White Helmets come “primo attore” per dimostrare il finto attacco chimico.



Nonostante queste evidenze, Peter Wilson, il rappresentante inglese dell’Opcw ha giudicato la conferenza indetta dalla Russia come “l’ennesimo tentativo di minare il lavoro dell’Opcw, in particolare la missione di inchiesta di uso di armi chimiche in Siria”. 

Tuttavia le riserve sollevate dal rappresentante inglese — come quelle dei media mainstream — non tengono conto che le dichiarazioni testimoniali raccolte dai russi non solo sono oggettive ma non sono neppure le uniche: infatti anche vari reportage di giornalisti stranieri che si sono recati a Douma confermano lo scenario che si va sempre meglio delineando. In particolare, il premio Pulitzer Robert Fisk, nella sua indagine giornalistica “La ricerca della verità tra le macerie di Duma” — tramite la testimonianza del dott. Assim Rahaibani — chiarisce che “i sintomi visti nei video sui pazienti trattati in realtà non erano altro che manifestazioni di stress respiratorio tra i rifugiati in un tunnel, polveroso e privo di ossigeno”. 



Ad avvalorare ulteriormente questa versione è la stessa missione Opcw, che avendo fatto i propri rilievi nel Centro di ricerca di Barzeh di Damasco (uno degli obiettivi colpiti dai missili occidentali), non ha trovato alcuna traccia di componenti chimici proibiti.

Alla luce di questi fatti, la posizione occidentale — benché si autodefinisca attivamente orientata alla ricerca della verità — sembra piuttosto rinchiusa in uno scetticismo di maniera, del tutto scollegato con ciò che accade. Insomma, tutte le evidenze disponibili dicono che un attacco chimico non è mai avvenuto, ma l’occidente si aggrappa sugli specchi e sta usando ogni mezzo per nascondere ancora la verità.  

Per far questo, Gran Bretagna e Usa hanno persino accusato Russia di aver scientemente fatto sparire le prove. In questo caso si gioca sull’ignoranza. Le tracce lasciate dagli agenti chimici letali non “spariscono” con una spruzzata di deodorante: essi vengono rilevati a livello molecolare con speciali procedure; di conseguenza, nascondere le loro tracce è praticamente impossibile.

Si capirà allora da queste poche fosche “pennellate” le motivazioni che hanno indotto Mosca a organizzare la conferenza a L’Aja e nello stesso tempo, ciò che ha spinto i media e i rappresentanti di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e paesi dell’ Unione Europea a disertarla.

E’ ormai chiaro che l’attenzione mediatica viene attivata solo per procurare nocumento al governo siriano. Altrimenti non si spiegherebbe la mancata copertura mediatica di fatti rilevanti, come la cruenta battaglia in corso dell’esercito siriano per liberare il quartiere Yarmuk (Damasco) dai terroristi dell’Isis o l’avvenuta liberazione della zona montuosa del Qalamoun Est dai jihadisti di Yaish al Islam. Silenzio mediatico anche sulla Ghouta liberata, mentre ora che i bisogni sarebbero davvero tanti, gioverebbe accendere le luci della ribalta e sentire finalmente i sentimenti della gente. 

Oblio anche sul rinvenimento di fosse comuni di soldati siriani e civili giustiziati a Raqqa ed a Ghouta, così pure di quelli morti di stenti e di torture nelle prigioni di Douma. Allo stesso modo, viene sottaciuto il tremendo sistema carcerario dei ribelli all’interno dell’enclave. La trattazione di questo argomento aprirebbe un altro capitolo. Basti solo sapere che nei luoghi di detenzione ci finivano le minoranze, i soldati catturati e i dissenzienti. Le prigioni avevano un duplice scopo. In primo luogo venivano usate per coercizzare all’indottrinamento religioso islamico radicale; in secondo luogo — tramite la tortura, gli stenti e le privazioni — veniva ottenuta l’assimilazione dei detenuti nei ranghi dei miliziani. I prigionieri avevano poche alternative tra il piegarsi e passare nelle file dei ribelli o la morte. Chi detenuto nel sistema carcerario principale — che si chiamava al-Tawba (Pentimento) — decideva di unirsi alle fila dei terroristi, veniva trasferito nella prigione di al-Kahf per ulteriore indottrinamento e addestramento militare. Per i soldati siriani catturati invece, la destinazione era il carcere di al-Batun, il più terribile di tutti gli altri. Dei tanti militari entrati in questa prigione pochi sono i superstiti. Tutti le migliaia di detenuti passati ad al Batun sono stati sottoposti a severe torture e molti sono stati giustiziati. Il posto per le donne era invece la prigione di al-Safinah e di al-Buq.

E’ probabile che di tutto questo non sappiate nulla ma i giornali arabi sono anni che ne parlano ampiamente (vedi ad esempio qui e qui). Naturalmente l’assenza dei media occidentali a L’Aja, come pure la mancata rivelazione di cosa avveniva all’interno di Ghouta Est, è una colpevole negligenza. Ma è coerente con una precisa politica dell’informazione. Tutti i paesi occidentali sono contro la Siria e si agisce su due livelli: tramite il “soft power” di guerra e con le armi. Essendo in guerra è pericoloso far conoscere il parere dei siriani, i loro desideri e ciò che accade.

Perciò buone le “prove” da set cinematografico caricate su Youtube dai White Helmet, come pure buone le testimonianze di tutte le varie Ong legate a doppio filo con i ribelli, destinate con la loro azione di propaganda ad aprire i paesi in crisi come noci mature: queste voci per l’occidente sono più importanti dei corpi dimenticati dei soldati e dei loro famigliari uccisi senza pietà e poi buttati nelle fosse comuni.