NEW YORK — Come si misura il valore di un presidente, quali sono gli indici che ci permettono di dare una lettura adeguata di un’amministrazione? Sarà perché in queste ultime settimane mi sono trovato a sbattere la testa contro il sistema sanitario, ma mi sono venute in mente queste domande. Insomma, ho provato a chiedermi se, al di là di propaganda, mistificazione, diffamazione e quant’altro, si possa individuare un criterio per valutare il più obiettivamente possibile l’operato di Donald Trump.



Il presidente più improbabile della storia degli Stati Uniti d’America, colui che è riuscito a farsi eleggere sulla promessa di riportare il Paese alla grandezza perduta, è in carica da oltre un anno e sembra proprio ben seduto sul suo trono. “Saldamente” e “comodamente” sarebbero termini eccessivi. Tuttavia, nonostante il vento costante di bufera e l’interminabile teoria di desaparecidos dell’amministrazione (roba da fare invidia alla fattoria degli animali di Orwell), Trump non è mai stato politicamente così forte. Forte e supponente come si è mostrato a Davos (World Economic Forum) qualche tempo fa; prepotente e alquanto presuntuoso come in questi ultimi giorni con la storia delle “tariffs“, dei dazi doganali. Dazi doganali che dovrebbero favorire il rilancio del “Made in the Usa” e limitare l’invadenza (sarebbe meglio dire “l’invasione”) dei prodotti di importazione. Tanto per capirci, che il mio stupendo cappello da cowboy in pelle nera comprato in Alabama sia “Made in China” a Trump non va proprio giù.



L’ultima, a questo proposito, è di ieri: in risposta ai suoi “consiglieri”, che lo invitavano a muoversi con cautela soprattutto nei confronti della suddetta Cina, Trump ha pensato bene di raddoppiare le imposte di dazio che aveva appena fissato. E tra mosse discusse e discutibili se ne esce anche con pillole di follia come quella di armare gli insegnanti per porre un freno agli “school shootings“.

Gioca duro Donald, e nella partita che si infiamma tutti quelli attorno a lui cascano come birilli, ma lui no. Cosa vuol dire?

Vuol dire che Trump è costantemente intento a cercare le carte da giocare per tenere in scacco i democratici e limitare malcontento e insurrezioni all’interno del partito repubblicano. Queste carte le trova e le sa giocare. Con la questione dei “Dreamers” (il “Dream Act”, Development, Relief and Education for Alien Minors, garanzia di un certo status a immigrati illegali cresciuti e scolarizzati negli Usa) il presidente è riuscito a far digerire ai democratici il nuovo budget con l’innalzamento vertiginoso della spesa pubblica che esso comporta. E quella leva gli sarà anche sufficiente ad affrontare la questione immigrazione, la prossima dietro l’angolo, senza tradire più di tanto le belligeranti promesse elettorali fatte all’America bianca diseredata.



Con i tagli fiscali, invece, ha imbonito l’ala tradizionale del partito conservatore: quella della riduzione delle tasse è l’unica lingua che tutti i repubblicani parlano e intendono più o meno allo stesso modo. Così anche con la sua costante guerra portata all’Obama Care (che non si sa ancora che fine farà).

Sulle ali di queste vittorie Trump svolazza infischiandosene delle indagini sulle collusioni con la Russia, delle accuse di maschilismo, delle (presunte) spericolate avventure con la pornostar di turno, dell’approccio voltagabbana nei confronti della giustizia (considerata tale solo quando persegue e perseguita gli avversari, ma non lui). Ecco perché mi sembra di poter dire che politicamente Trump abbia azzeccato la sua strategia. Che, in fondo, altro non sembra essere che “faccio quello che mi viene in mente”.

Il punto, però, la grande domanda è che cosa queste vittorie politiche abbiano a che fare con il bene del Paese. Perché è questo ciò che è veramente in ballo. Cosa ci porteranno queste mosse a medio-lungo termine? Frontiere sempre più ermetiche, feroce inimicizia internazionale, innalzamento del tasso di sconto, crescita dell’inflazione, ancor più classismo, impoverimento generalizzato? Largo alle teorie economiche: c’è chi dice che spendere i soldi che non si hanno non faccia tanto bene, c’è chi dice il contrario. Come sempre uno ci piglierà e un altro no.

Resta il fatto che lo stato dell’Unione è debole e nessuno sembra avere in mano il bandolo della matassa. Si naviga a vista, dagli alti e bassi di Wall Street a quelli del negozietto dietro l’angolo.

A cosa serve una vittoria politica se non è per il bene comune?