Mercoledì scorso Putin, Rouhani ed Erdogan si sono visti ad Ankara per consolidare ulteriormente i progressi compiuti con l’istituzione delle aree di de-escalation e discutere come meglio affrontare le sfide future per accelerare il processo di pace in Siria.
Naturalmente tra Russia, Turchia e Iran esistono divergenze; la Turchia è stata per lungo tempo sostenitrice del “regime change” siriano e solo negli ultimi tempi ha rinunciato alle dimissioni di Assad. Altra divergenza è stata la richiesta di riconsegna al governo di Damasco delle terre sottratte dalla Turchia ai curdi. Ma su questo punto Erdogan ha dichiarato che quelle zone saranno restituite “dopo un certo tempo necessario per la stabilizzazione e la messa in sicurezza”.
In definitiva l’intesa — focalizzandosi su alcuni obiettivi di reciproco interesse raggiungibili — sembra ben consolidata. Il clima positivo rispecchia la dichiarazione finale congiunta, dove all’unanimità i rappresentanti del terzetto si impegnano a continuare le iniziative intraprese con la garanzia di preservare il carattere laico dello Stato e salvaguardare la sovranità ed integrità territoriale della Siria.
Ma mentre Putin, Erdogan e Rouhani si sono incontrati in Turchia per procedere secondo quanto stabilito dalla Risoluzione 2401 dell’Onu, una vera doccia fredda è arrivata dalle principali potenze occidentali. Esse hanno approfittato della coincidenza del summit turco con il primo anniversario dell’attacco chimico alla città siriana di Khan-Sheikhun, per rilanciare un duro monito alla prospettiva di pace in Siria. Noncuranti che persino l’Arabia Saudita abbia dato segni di distensione accettando che Assad — se lo vorrà il suo popolo — rimanga al potere, in una dichiarazione congiunta Heiko Mas (ministro degli Esteri tedesco), Jean-Yves Le Drian (ministro degli Esteri francese), Boris Johnson (ministro degli Esteri britannico), e John Sullivan (vicesegretario di Stato Usa) hanno espresso la loro determinazione “a chiedere conto” al presidente siriano Bashar al Assad. Nel documento congiunto i rappresentanti di Germania, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti hanno reiterato le minacce alla Siria ed hanno detto chiaramente che non la lasceranno stare: “Non ci fermeremo fino a quando non avremo ottenuto giustizia per le vittime di questi attacchi orribili in Siria”.
Dimenticando che l’incidente di Khan-Sheikhun ancora non è stato mai chiarito e che i metodi usati nelle indagini sono assai opinabili, i ministri degli Esteri dei tre paesi e il capo del Dipartimento di Stato americano sono tornati a rinvigorire le proprie condanne unilaterali indirizzate esclusivamente contro il governo siriano: “Siamo determinati a portare in giudizio tutti i responsabili (dell’uso di armi chimiche)”, si legge nella dichiarazione. Non mancano anche accuse alla Russia, che “non ha adempiuto ai propri obblighi dopo che aveva promesso nel 2013 di assicurare che il regime di Assad avesse distrutto tutte le sue armi chimiche”. E’ inutile dire che tali accuse peraltro ignorano completamente gli innumerevoli laboratori chimici dei ribelli rinvenuti a Ghouta Est ed a Deir Ezzor.
A seguire, venerdì 6 aprile — dopo le minacce “mandate a dire” tramite i rispettivi ministri degli Esteri — il presidente Macron ha telefonato a Putin e gli ha chiesto che usi “tutta la sua influenza” sulle autorità siriane per porre fine al conflitto armato e “per impedire all’Isis di rafforzarsi”. L’iniziative dei ministri degli Esteri e le parole di Macron dimostrano che le abili azioni diplomatiche francesi e le sofisticate tecniche della comunicazione sono tuttora concentrate a screditare il governo siriano per giustificare l’inimicizia dei governi occidentali.
Naturalmente sappiamo che questi ultimi, mentre “richiedono” il cessate il fuoco, continuano ad armare, finanziare le milizie jihadiste, sanzionare, mandare forze speciali sul terreno e organizzare “false flag” chimiche con il solo scopo di giustificare una spallata occidentale diretta all’odiato governo di Damasco. Lo stesso invito di Macron assomiglia tutt’al più all’invito effettuato in pieno combattimento a solo uno dei contendenti, di legarsi una mano dietro la schiena.
Ma non è ancora questo il punto: Macron sembra ignorare che le tregue sono sistematicamente violate proprio dalla parte che lui sostiene. I fatti sono purtroppo eloquenti: lo stesso giorno in cui lui conversava con Putin, si sono registrate violazioni della tregua nelle provincie di Idlib, Homs e Latakia. Queste violazioni sono state compiute dai gruppi ribelli contro le truppe governative e sono la fotografia di quanto avviene quasi quotidianamente.
Oltre a ciò, sempre venerdì, una frazione del gruppo jihadista Jays al-Islam ancora presente in Ghouta Est — che dapprima aveva accettato la tregua — ha bombardato la capitale facendo una strage, sono stati uccise quattro persone e 30 sono rimaste ferite.
Cosa dovrebbe fare in questo caso l’esercito siriano? Cosa farebbe in casi simili l’esercito francese se fosse bombardata Parigi da elementi che volessero rovesciare il governo per porre al suo posto un emirato? Probabilmente la Francia in questo caso svilupperebbe un’offensiva per neutralizzare la minaccia sulla capitale: è né più né meno quello che venerdì ha fatto l’esercito siriano.
L’offensiva di Damasco è continuata sabato. Nel corso della giornata è stato segnalato dai “White Helmet” (Ong embedded al gruppo qaedista al Nusra), un attacco chimico governativo a Douma. Il giorno prima i servizi segreti russi avevano annunciato un falso attacco chimico che i ribelli avrebbero attribuito ai governativi. I jihadisti stanno facendo circolare foto di civili morti nei rifugi sotterranei, proprio in quei sotterranei in cui loro stessi hanno torturato ed ucciso centinaia di civili.
La domanda è ora: a chi crederà la comunità internazionale? Forse sarebbe il caso che la comunità internazionale smettesse di prendere in giro i propri cittadini e si facesse un serio esame di coscienza sulla propria identità, sulle proprie priorità e sui propri obiettivi.