La prossima settimana l’attenzione del mondo tornerà a spostarsi su Gerusalemme, la Palestina e Israele. La Siria, il Libano e soprattutto l’Iran torneranno in stand by, in attesa, ma solo per pochi giorni. I 70 anni della fondazione dello stato di Israele verranno festeggiati nel cielo di Gerusalemme con un tripudio di fuochi di artificio. In terra, invece, il palcoscenico della città dovrà essere diviso in due: da una parte i governanti israeliani ed i loro amici americani (ci sarà Ivanka Trump, ma non papà) riuniti, nel sobborgo occupato nel ’67 di Arnona, per festeggiare la trasformazione del Consolato americano a Gerusalemme nella nuova Ambasciata degli Stati Uniti presso lo Stato d’Israele. Dall’altra parte a Gerusalemme est migliaia di poliziotti e soldati israeliani concentrati per impedire le manifestazioni di protesta dei palestinesi. Il 14 e il 15 maggio, non solo a Gerusalemme est, ma anche nelle città e paesi della Cisgiordania, e soprattutto sul confine di Gaza, a migliaia torneranno in strada per ricordare la Nakba, la catastrofe e l’esodo dei palestinesi dopo la vittoria delle milizie ebraiche nel maggio del ’48. E’ possibile che ci siano, tra i palestinesi, altri morti e feriti, che andranno ad aggiungersi a quelli, che solo a Gaza, nell’ultimo mese, hanno raggiunto la terribile cifra di 50 morti e 9mila feriti. Colpiti dai militari israeliani a ridosso del confine, durante le manifestazioni organizzate dal movimento di Hamas, proprio per rivendicare il diritto al ritorno degli esuli palestinesi, a 70 anni dalla Nakba.
Il numero crescente di morti e feriti palestinesi non sembra preoccupare il premier israeliano Netanyahu né i suoi ministri. Una situazione gestita come un problema di “ordine pubblico”. D’altra parte la comunità internazionale, in particolare i paesi europei, non hanno sollevato alcuna specifica protesta per il massacro che si compie sul confine di Gaza. Altro discorso per il futuro di Gerusalemme: la decisione del presidente Trump di spostare la sua ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, al di fuori di qualsiasi accordo di pace con i palestinesi, ha fatto capire che il decisionismo americano filo-israeliano (vedi anche la rottura dell’accordo sul nucleare con l’Iran) rischia di portare l’intera comunità internazionale su nuovi scenari di guerra. Il 14 maggio a Gerusalemme gli ambasciatori dei paesi dell’Unione Europea non parteciperanno all’inaugurazione della nuova ambasciata statunitense. Un segnale di protesta e autonomia rispetto al gigante americano.
Ancor più forte il dissenso di Francia, Germania, Regno Unito (ma anche dell’Italia del governo Gentiloni) rispetto alla scelta di Trump di rompere unilateralmente l’accordo con l’Iran sul nucleare. “Quell’accordo ha fin qui funzionato bene ed è stato rispettato dall’Iran” questo ha detto senza ambiguità Federica Mogherini, l’alto rappresentante per la politica estera dell’Unione Europea. Di qui la decisione, importante, dei paesi europei di continuare a rispettare quell’accordo, come d’altra parte ha deciso di fare anche l’Iran, la Russia, la Cina e l’Onu.
Basterà questa decisione a disinnescare un conflitto con l’Iran? Per il momento sì. Tuttavia i ripetuti bombardamenti israeliani sulle forze militari iraniane, presenti in Siria a sostegno del presidente siriano Bashar al Assad, sono molto più di una miccia su un terreno impregnato di carburante. Dice Netanyahu: “Da mesi Teheran sta trasferendo armi letali alle sue forze in Siria con l’obiettivo di colpire Israele”. Non si dice più che l’Iran ha la bomba atomica nel cassetto, ma il “polipo iraniano”, come lo definisce il ministro dell’istruzione israeliano Bennett, va colpito nei suoi tentacoli. Forse Netanyahu e Bennett vogliono solamente il ritiro degli iraniani da Siria e Libano, ma il rischio di una guerra generale, di una Terza Guerra del Golfo diventa ora più concreto.