L’occidente ha esaurito tutte le opzioni militari per continuare la guerra in Siria tramite le proprie forze proxy radicali islamiche. L’esercito siriano e gli alleati hanno ripreso quasi tutto il territorio precedentemente sottratto dagli insorti. Tuttavia l’esercito siriano, letteralmente decimato, per arrivare ai risultati attuali ha dovuto fruire dell’aiuto dell’Iran che ora giustamente ambisce a stabilire una presenza in Siria, avere un ruolo nella ricostruzione e — più in generale — aumentare il suo peso in Medio oriente. 



Il problema è che queste aspirazioni hanno suscitato l’insofferenza statunitense, nemico giurato di Teheran e amico della monarchia saudita. Infatti, gli Stati Uniti non hanno mai nascosto che l’Iran è sulla loro lista dei paesi da attaccare per riconfigurare il Medio oriente, come annunciato dal gen Clark nel 2007  su “Democracy Now” e dall’attuale Consigliere per la sicurezza nazionale americano Bolton nel 2015 (New York Times, 26 marzo 2015). Non si tratta di “complottismo”: ulteriori dettagli di come la Cia da tempo cercava le debolezze del governo di Assad che potevano essere sfruttate per minarlo sono visionabili su vari documenti declassificati. In particolare, in un ottimo articolo di Trouthout, vengono rivelate le interazioni tra il governo siriano e quello iraniano che “dovrebbero essere minate”. 



Inutile dire che — sulla necessità di eliminare la presenza iraniana in Siria — l’attuale amministrazione statunitense ha trovato una stretta convergenza di vedute con il primo ministro israeliano Netanyahu (che tra l’altro in questo modo distoglie i gravi problemi che ha con la legge per tangenti ed illeciti).

Viste le precedenti “dichiarazioni di intenti”, si capisce bene che ora anche se gli Stati Uniti non adotteranno l’ extrema ratio dell’attacco diretto, le forze iraniane e siriane saranno esposte alla minaccia aerea israeliana e comunque ad un aumento dell’ostilità occidentale di tipo “correttivo”. 



Non possiamo non notare che la politica occidentale pecca di estrema incoerenza con gli enunciati degli Stati Uniti e degli alleati nel compito primario della lotta al terrorismo. Infatti, non tutti lo sanno, ma in questo momento solo le forze governative siriane e le forze alleate palestinesi, iraniane e russe lottano contro il terrorismo. Esse sono ora concentrate contro i terroristi dello stato islamico trincerati nella sacca di Yarmouk a sud di Damasco. Ma paradossalmente proprio mentre l’esercito arabo siriano (Saa) sta compiendo questo sforzo al costo di dure perdite, il 10 maggio ha ricevuto un devastante attacco israeliano. 

In proposito, è interessante sottolineare che la versione comunemente diffusa dei media è completamente falsa: tale versione riferisce che quella israeliana è stata l’immediata risposta all’attacco di una salva di 20 missili iraniani lanciati sulle postazioni ebraiche sul monte Hebron (Golan), insomma un atto di aggressione bella e buona.

Tuttavia così non è: in realtà l’attacco delle forze siriane/iraniane è stato la risposta al raid aereo israeliano effettuato due giorni prima, esattamente l’8 maggio. In quell’occasione è stata colpita un’installazione militare dell’esercito siriano utilizzata anche dalle forze al Quds (un’unità speciale del Corpo delle Guardie della rivoluzione islamica iraniana). Questa base è situata militare nella città siriana di Al-Kiswa (Kisua), a 10 km a sud di Damasco, proprio in zona del fronte contro Isis. 

E’ degno di nota che il deposito era stato già colpito una volta nel dicembre 2017 e si trova al di fuori dei 30 km dal confine, ovvero al di fuori della zona “cuscinetto” entro la quale — secondo quanto concordato con la Russia — non deve esserci presenza iraniana. E’ anche utile ricordare che dall’inizio della crisi, le forze siriane ed alleate hanno collezionato un centinaio di attacchi aerei israeliani sul proprio territorio (senza mai reagire prima del 10 maggio) e ben al di là dei 30 km previsti. 

Inutile dire che l’atteggiamento americano e israeliano è quanto mai improvvido e rischia insieme di indebolire il presidente iraniano moderato Rouhani (a favore delle fazioni religiose estremiste) e nello stesso tempo di riaccendere il conflitto siriano, facendolo degenerare in un conflitto regionale più vasto.
Resta ora  da vedere se la diplomazia russa e il viaggio del ministro degli Esteri iraniano Mohammed Javad Zarif — che l’11 maggio ha iniziato un tour diplomatico serrato per cercare di salvare l’accordo sul nucleare — saprà disinnescare la bomba ad orologeria che si è appena innescata.

(1 – continua)