Per decenni, il punto centrale di ogni discussione sul Medio oriente è stata la cosiddetta “questione palestinese”, ma sarebbe stato più giusto parlare di una “questione israeliana”. Il problema di Israele è sul tappeto dal 1948, quando gli Stati arabi non accettarono la decisione dell’Assemblea dell’Onu e attaccarono il neonato Stato di Israele. Israele vinse quella guerra e le successive, trasformandosi spesso da attaccato ad attaccante, ma una soluzione definitiva della questione è stata impedita dalla pervicacia con cui gli arabi non hanno voluto accettare l’esistenza di Israele.
Il primo trattato di pace fu firmato dall’Egitto nel 1979, con la restituzione da parte di Israele del Sinai, occupato nella guerra del 1967, ma l’Egitto è stato seguito dalla sola Giordania nel 1994. Un reciproco riconoscimento tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina iniziò solo negli anni 90 con gli incontri sponsorizzati dagli Stati Uniti, dagli accordi di Oslo del 1993 a Camp David nel 2000. Fu così accettata anche da parte araba la soluzione dei due Stati proposta dall’Onu nel 1947. La “questione palestinese” è sorta per il non rispetto di quegli accordi, con responsabilità di entrambe le parti.
La “questione palestinese” si è così affiancata alla “questione israeliana”, riportata alla ribalta da movimenti palestinesi islamisti, come Hamas a Gaza, che hanno come obiettivo la cancellazione dello Stato di Israele. La situazione si è inoltre aggravata per la progressiva confessionalizzazione della regione, ultimo esempio la Turchia. Da questo processo non è rimasto immune lo stesso Israele, dove sono sempre più presenti spinte per il rifiuto, o la netta limitazione a favore di Israele, della soluzione dei due Stati.
Hamas non ha rinunciato alla soluzione “un solo Stato”, ovviamente islamico dopo l’eliminazione di Israele, ma sembra per il momento sostituire le azioni di guerra con l’arma dei profughi palestinesi. Nelle recenti manifestazioni ai confini di Gaza viene infatti proclamato il “diritto di ritorno” per i discendenti di questi profughi. Una richiesta inaccettabile per Israele: al di là della sua effettiva fattibilità, il rientro di queste masse di arabi raggiungerebbe lo scopo di eliminare, dall’interno, lo Stato di Israele.
Qui sono gravissime le responsabilità internazionali e dell’Onu, perché hanno lasciato che rimanesse irrisolto il problema dei profughi palestinesi, passati dagli originari 700mila, arrivati poi a circa un milione dopo la guerra del ’67, agli attuali 4,5 milioni. Tre generazioni cresciute in campi profughi, mettendo a repentaglio anche la stabilità dei Paesi ospitanti. Negli stessi anni, milioni di profughi nell’Europa devastata dalla guerra sono stati riassorbiti dai Paesi in cui si erano rifugiati: per loro sarebbe improponibile un “diritto di ritorno”.
Sul piano internazionale, Israele si è posto con molta nettezza come un interlocutore ineliminabile per ogni sistemazione geopolitica della regione, traendo vantaggio dal suo assetto democratico, piuttosto raro nell’area, da un notevole sviluppo economico e tecnologico, da una considerevole forza militare, appoggiata da eccellenti servizi di intelligence. Senza dimenticare che è l’unica potenza nucleare nella regione. L’accordo sul nucleare firmato nel 2015 con l’Iran dagli Stati Uniti, Russia, Cina, Regno Unito, Francia e Germania, aveva lo scopo di interrompere la corsa al nucleare militare di Teheran, senza peraltro richiedere il disarmo nucleare di Israele, che non ha finora sottoscritto il Trattato di non proliferazione nucleare. La denuncia dell’accordo da parte di Trump ha soddisfatto il governo di Netanyahu, ma rischia di essere un fattore di rottura non solo degli Usa con Cina e Russia, ma anche con i firmatari europei dell’accordo voluto da Obama.
Proprio il desiderio di prendere le distanze da Obama sarebbe alla base della decisione di Trump, altrimenti ben poco comprensibile, una decisione peraltro in linea con la generalizzata tendenza a uscire da tutti i trattati firmati dai suoi predecessori. Gli Stati Uniti di Trump si presentano sempre più isolati e sempre più aggressivi, una posizione non del tutto nuova per gli Usa. Nella stessa situazione sta portando Israele il governo nazionalista di Netanyahu, nel quale un grosso peso hanno anche i partiti che rappresentano le componenti ultraortodosse della popolazione israeliana. Israele, però, non può permettersi di rimanere isolata internazionalmente ed è molto pericoloso contare solo sulla propria forza militare e la propria spregiudicatezza. Questi elementi erano accettabili quando era in gioco la stessa esistenza dello Stato e si potevano quindi capire azioni di guerra preventiva, come il bombardamento nel 2007 di un reattore siriano in costruzione, ora ammesso ufficialmente.
Azioni preventive come quella contro la Siria sarebbero disastrose se condotte contro l’Iran, con riflessi globali difficilmente prevedibili. Né l’ostilità del regime degli ayatollah può essere fronteggiata da alleanze strumentali con una parte del mondo sunnita, come l’Arabia Saudita. Difficilmente le strategie fondate sul principio “il nemico del mio nemico è mio amico” hanno un esito positivo, soprattutto con uno Stato con cui si è tecnicamente ancora in guerra. Anche nel caso di Israele vi sono problemi interni che portano il governo a “mostrare i muscoli”, ma ciò non fa che aumentare le divisioni nel Paese, indebolendone la posizione verso sia i nemici che gli amici. Infatti, la spietata repressione delle manifestazioni a Gaza è inconciliabile con uno Stato di diritto e non può essere accettata, anche da chi condanna le strumentalizzazioni di Hamas, pagate come al solito dal popolo palestinese.
Un’azione concorde tra Stati Uniti, Russia e Israele sarebbe forse l’unica via per iniziare finalmente a costruire uno scenario di pace in Medio oriente. Una via difficile con “questioni” sempre più aperte: la palestinese e l’israeliana, cui si aggiunge quella americana, divenuta più grave con Trump.