Sabato sarà la terza volta che i sindacati porteranno in piazza i lavoratori contrari alle annunciate riforme di Emmanuel Macron. Non solo: per la prima volta dal 2010 le cinque principali sigle sindacali  (Cgt, Fo, Cfdt, Unsa e Cftc) sfileranno insieme promettendo una “marea popolare” e “un giorno di inferno per Macron”. Di fatto, è da giorni che i lavoratori statali scendono in piazza: sul piatto c’è la riforma dell’impiego pubblico e statale che prevede 120mila esuberi di una categoria che tra istruzione, sanità e trasporti conta circa 6 milioni di persone, una categoria, come ci spiega, da Parigi, Francesco De Remigis in questa intervista, “gode da sempre di privilegi tipicamente francesi considerati intoccabili e che invece Macron vuole cancellare del tutto”.



I lavoratori francesi sono sul piede di guerra: se non altro Macron è riuscito a riunire dopo quasi dieci anni i sindacati. Che significato ha questo?

Va detto che il mondo sindacale francese è molto diverso da quello italiano, ci sono branche sotterranee per ogni sindacato, è una scena molto ampia, ma è anche una scena ampiamente prevista da Macron.



Dunque non teme la protesta?

Aver messo sul piatto da parte sua così tante riforme è stato una sorta di banco di prova per tutta la società, una sorta di crash test. Quella di sabato non è una manifestazione inattesa, e non andrà a influenzare le scelte del presidente che continuerà il cammino annunciato.

Sono soprattutto i dipendenti pubblici e statali a essere scesi in guerra contro di lui, perché?

Macron sta facendo un ragionamento su dipendenti pubblici e statali non di trasformazione ma di rottura. Sono circa 6 milioni di persone tra istruzione, sanità e trasporti. La questione più calda è quella della flessione del personale, si tratta di mandare via 120mila persone tra buona uscita e prepensionamento, e questo ha un significato forte per la società francese.



Quale?

I dipendenti pubblici e statali hanno una storia consolidata di alcuni contratti con privilegi non da poco, ad esempio i ferrovieri su cui Macron si sta concentrando per modificarli.

Quali sono i punti che più hanno fatto infuriare i lavoratori?

Da una parte la flessione del personale che dicevamo, dall’altra una revisione dei contratti dei ferrovieri che hanno una logica quasi ancestrale di privilegio tutto francese alla quale la Francia è abituata e che lui invece vuole sradicare.

Con il 23% dei consensi con cui è stato eletto, può arginare questa protesta e fare le riforme annunciate? Andrà davvero avanti come ha detto lei prima?

Questo è ciò che ripete, ma anche il governo attraverso i ministri dei singoli comparti interessati lo dicono. D’altro canto il carattere riformista di Macron non si può sottoporre a fact checking in un anno. Lui è convinto di portarlo avanti, usa molto i media per promuovere le sue promesse. Basti pensare che si è definito un presidente jupiteriano, un Giove che è sceso dall’Olimpo per cercare di ridisegnare la geografia sociale francese. C’è poi un dato numerico significativo.

Quale?

Rispetto ai predecessori Macron ha aperto cantieri di riforma ma ha fatto pochissime leggi, ne ha varate 28. Nel primo anno del suo mandato Chirac ne aveva fatte 57, Sarkozy 55 e Hollande 53. Il fact checking di cui dicevamo è superato da queste cifre: le questioni messe in campo devono ancora tutte o quasi essere messe alla prova dell’attuazione vera e propria.

I suoi elettori gli sono rimasti fedeli o lo contestano anche loro?

Il suo elettorato come sappiamo è trasversale. C’è una parte che non ha accolto benissimo le questioni legate alle leggi fiscali, la fiscalità che Macron intende ridisegnare per portare maggiori entrate per lo stato ma anche privilegi per le fasce più agiate. C’è invece una parte di elettorato che lamenta una mobilitazione sociale eccessiva, dicono: diamogli tempo di dimostrare se le sue riforme funzioneranno o no.

Questa mobilitazione sindacale potrebbe ricompattare la sinistra, o meglio: esiste ancora la sinistra in Francia?

La sinistra francese come altre sinistre europee è eterogenea e divisa in piccoli compartimenti stagni che continuano a non incontrarsi. Un conto è una giornata di manifestazione, dove ci si fa vedere tutti insieme, ma dopo la sconfitta dei socialisti a maggio 2017, il partito non è ancora riuscito a inquadrarsi in un percorso di rinnovamento. La stessa cosa la Francia ribelle di Melenchon: a livello mediatico funziona ma a livello parlamentare e di proposte è ferma alla propaganda elettorale. Anche per questo la piazza non è composta di persone comuni, ci sono i movimenti politicizzati, sono tornati i black bloc, ma questo ci dice che la partecipazione popolare non politicizzata non c’è.

Marine Le Pen che fa in questo quadro, ostacola Macron?

Marine Le Pen al momento sta giocando una battaglia per l’anno che verrà, cioè le prossime elezioni europee. Il suo tema predominante è la rivisitazione degli assetti europei, cerca di attrarre a sé un elettorato che non è solo quello della destra ma anche quello che non è molto contento di quello che Macron sta proponendo sulla Ue. 

A proposito: si può dire che la relazione preferenziale Francia-Germania si stia incrinando, con Macron che gioca a fare il leader?

I rapporti sono ancora di profonda collaborazione sulle questioni europee dei trattati. Certamente l’interventismo di Macron, la voglia di rappresentarsi come leader carismatico non solo in Europa ma accreditandosi con Trump come interlocutore privilegiato un peso ce l’ha, e questo la Merkel al momento lo tollera, ma sarà un punto su cui i due si confronteranno. Ma non da soli. Dopo le elezioni europee i leader dei vari paesi dovranno dire la loro e quindi Macron e la Merkel saranno ampiamente influenzati dagli altri leader europei.

(Paolo Vites)