“La solitudine del mezzosangue”: è il titolo di un articolo scritto all’inizio di aprile su Russia in Global Affairs da Vladislav Surkov, consulente e assistente di Vladimir Putin. Il termine “mezzosangue” si riferisce alla caratteristica precipua della Russia, il suo essere euroasiatica, e quindi, scrive Surkov, “parente di ognuno, ma di nessuno familiare… in grado di capire tutti, ma capita da nessuno”. Una descrizione della situazione russa che porta l’autore a ipotizzare un secolo o addirittura più secoli di solitudine, dopo “un epico viaggio verso l’Occidente” e secoli di “ripetuti e inutili tentativi di diventare parte della civiltà occidentale”.



Ora tocca al popolo russo, continua Surkov, decidere se la Russia deve rimanere isolata ai margini o diventare un leader tra le nazioni, attraverso un duro e lungo viaggio “tra le spine verso le stelle”.”Solitudine — aggiunge l’autore — non significa completo isolamento. La Russia continuerà senza dubbio a coinvolgersi” ed elenca una serie di attività che vanno dal commercio alla guerra, dal competere al cooperare, causando “timore, odio, curiosità, simpatia e ammirazione. Ma senza falsi obiettivi e autonegazioni”.



Dato il ruolo di Surkov, è lecito pensare che sia una posizione condivisa da Putin e dai vertici russi e, probabilmente, da una parte non irrilevante del popolo russo. E si può anche pensare che i russi abbiano imparato bene la lezione di Trump, adattandola alla loro situazione: “Russia first” e “Make Russia great again”. Anche se forse non era questo l’obiettivo del presidente americano.

La combinazione di delusione e timore, insieme a orgoglio e desiderio di affermazione, che traspare dall’articolo di Surkov assume termini più aggressivi in altri interventi. In un articolo su Russia Insider a firma Damian Martinovich, per esempio, si prevedono sei anni molto difficili per Putin a causa dei costanti attacchi dell’Occidente. L’autore ritiene inevitabile una decisa risposta russa e critica, perché troppo accomodanti, Sergej Lavrov, ministro degli Esteri, e Dmitri Medvedev, primo ministro, invitandoli a lasciare il posto a politici più giovani e determinati.



Martinovich suggerisce una strategia che si potrebbe definire autarchica: allontanamento di tutte le società americane che possono essere rimpiazzate da società russe (l’elenco va da McDonald’s a Google), sostituzione con produzioni locali delle merci importate dall’Occidente, eliminazione del dollaro dalle transazioni internazionali con la Russia. Sul piano politico e militare, la Russia dovrebbe inviare consistenti forniture di armi ai talebani in Afghanistan, a Hezbollah in Libano e partecipare attivamente alla modernizzazione delle forze armate iraniane. Inoltre, non è nell’interesse russo aiutare gli Usa a risolvere il conflitto con la Corea del Nord, che dovrebbe anzi essere aiutata nella sua corsa agli armamenti. Infine, dovrebbero essere radicalmente rivisti i rapporti con Israele, accusato di voler mantenere la Siria in una situazione di permanente caos, in funzione anti-russa.

Anche in questo caso, è probabile che una parte dei russi — da stabilire se maggiore rispetto a quella che concorda con Surkov — condivida queste posizioni. Ad ogni modo, sarebbe bene riflettere sulla strategia attuale degli Stati Uniti verso la Russia, che è difficile non definire pericolosa e piuttosto incerta, se non addirittura controproducente, nei suoi risultati. Sotto questo aspetto è interessante il titolo provocatorio di un articolo apparso su Sputnik International: “Trump farà ridiventare ricca la Russia”. L’autore, Ivan Danilov, prende spunto da un tweet in cui Trump accusa l’Opec di aver fatto aumentare artificialmente il prezzo del petrolio, danneggiando i consumatori americani per il conseguente aumento del prezzo della benzina. Danilov cita una nota apparsa sul sito di Citigroup che attribuisce l’andamento del prezzo del petrolio a cause geopolitiche, cioè la nomina di “falchi” come Mike Pompeo a segretario di Stato e di John Bolton a consigliere per la sicurezza nazionale. Il paradosso è che questo aumento sta premiando la Russia, forte produttrice di petrolio, e il “grazie” va a Trump.

Il presidente americano deve essere ringraziato, secondo l’articolista, anche per le nuove sanzioni contro l’alluminio russo e la conseguente caduta del rublo. Il deprezzamento del rublo finisce per aiutare l’economia russa e Danilov cita, anche qui con una certa ironia, la Reuters secondo la quale, a causa delle fluttuazioni del rublo, McDonald’s ha deciso di utilizzare per i propri negozi in Russia patate prodotte localmente, invece di importarle da Olanda e Polonia.

Secondo l’articolista, Trump non potrà che condurre politiche dirette a far aumentare il prezzo del petrolio, avendo le società petrolifere americane finanziato in modo rilevante la sua campagna elettorale ed essendo sostenitrici storiche del Partito Repubblicano. “E’ da vedere se Trump riuscirà a fare di nuovo grande l’America, ma senza dubbio può rendere la Russia ricca” è la sarcastica conclusione.

Di fronte a questi toni decisamente da Guerra fredda, quali sono le reazioni dell’altro “mezzosangue”, la euroatlantica Unione Europea? La risposta sembra rilevante ai fini del mantenimento della pace nel mondo, ma occorrerebbe che Bruxelles e tutti i governi europei si ponessero la domanda, non solo Berlino e Parigi.