Nella sua recente intervista al Sussidiario, Edward Luttwak pone in rilievo uno degli elementi salienti della politica estera di Donald Trump: mostrare i muscoli. E’ lecito, tuttavia, nutrire qualche dubbio che il “far la faccia feroce” di Trump sia alla base della possibile, e sperabile, soluzione della questione nordcoreana. I suoi tonitruanti tweet sono probabilmente serviti di copertura ai veri protagonisti della vicenda: in primo luogo Xi Jinping, poi forse Putin, e senza dubbio i due leader coreani, del Nord e del Sud.
Ancor meno probabile è che una strategia simile possa funzionare con l’Iran, un Paese centrale in un’area forse ancor più critica di quella asiatica. Con i suoi quasi 80 milioni di abitanti (tre volte la Corea del Nord), l’Iran è un ponte tra il Medio oriente e il resto dell’Asia ed è il centro del mondo sciita. Un mondo molto diviso al suo interno, ma unito di fronte al sunnismo, lo storico avversario che raccoglie circa l’85 per cento dei musulmani. L’Iran è anche, insieme alla Turchia, il maggiore Stato non arabo della regione, essendo la sua popolazione in maggioranza indoeuropea. Inoltre, l’antica Persia ha alle sue spalle una gloriosa storia, ben conosciuta anche in Occidente per le guerre tra persiani e greci. Anche dopo la conquista islamica, l’Impero Persiano ha avuto una grande espansione e si è posto come antagonista dell’Impero Ottomano.
L’unità degli iraniani fu messa alla prova dalla guerra contro l’Iraq, iniziata nel 1980 e terminata otto anni dopo, senza vinti e vincitori. L’Iraq di Saddam Hussein attaccò la neonata Repubblica islamica con l’aperto sostegno dell’Unione Sovietica e il sostanziale via libera degli Stati Uniti. Una guerra sanguinosa, che dimostrò la sostanziale unità degli iraniani anche sotto il regime confessionale degli ayatollah. In quell’epoca, tra l’altro, iniziarono i rapporti di collaborazione con la Cina e la Corea del Nord. E’ una lezione che gli Stati Uniti farebbero bene a tener presente, perché le reboanti minacce di Trump rischiano solo di rafforzare l’unità nazionale degli iraniani, per di più attorno alle fazioni più radicali. A differenza di quanto accade in Arabia Saudita, alleato di ferro degli Usa, in Iran si tengono elezioni che, malgrado lo stretto controllo delle autorità religiose, hanno favorito nel 2016 le liste moderate o riformiste. Nel Parlamento iraniano, cinque seggi sono riservati alle minoranze religiose non islamiche, mentre in Arabia Saudita non è possibile praticare nessun culto al di fuori dell’islam.
E’ difficile non considerare inadeguata la politica mediorientale di Obama, ma nel quadro descritto risulta del tutto realistico l’accordo stipulato con l’Iran sul nucleare, al dunque “digerito” anche dall’alleato saudita. Dietro l’accordo ha giocato probabilmente anche il raffreddamento sotto Obama dei rapporti con Israele, ripresi ora con molto calore da Trump. Di per sé è un fatto positivo, perché la pace in Medio Oriente può arrivare solo con un accordo tra i principali protagonisti: Israele e Arabia Saudita, senza dimenticare la Turchia. Non sembra in linea con una prospettiva di pace, al contrario, l’accordo in funzione anti-iraniana che si sta delineando tra Israele e Arabia Saudita, formalmente ancora in guerra tra loro. Gli Stati Uniti, alleandosi acriticamente con questo schieramento, rischiano di allontanare ogni prospettiva di pace e di far precipitare la situazione in un conflitto globale.
Lo scontro in atto tra Israele e Iran è forse il più critico tra i tanti problemi che affliggono il Medio oriente, alimentato anche da situazioni interne ai due Stati. Il proclamare come obiettivo la distruzione dello Stato di Israele è per i radicali iraniani un mezzo per mantenere il controllo del Paese, presentandosi come gli unici difensori del “vero” islam contro il Grande Satana americano e il suo alleato israeliano. La minaccia iraniana è, per converso, uno strumento degli estremisti israeliani, e di un governo Netanyahu in crisi, per operazioni belliche definite preventive.
Su tutto quanto pesa enormemente il fatto che Israele è l’unica potenza nucleare della regione, argomento che può essere facilmente utilizzato dai suoi avversari, in primis l’Iran. Nell’attuale situazione è praticamente impossibile chiedere a Israele di rinunciare al proprio armamento nucleare, ma si può avviare un processo generale di riappacificazione nella regione che consenta di neutralizzare la questione. Il primo passo è appunto un avvio a soluzione del conflitto tra Israele e Iran, possibile solo con un’azione congiunta tra Stati Uniti e Russia, senza tralasciare la Cina. Per quanto riguarda l’Unione Europea, sarebbe importante che impedisse ad alcuni suoi membri, come Regno Unito e Francia, di alimentare gli scontri per propri interessi particolari. Né l’atteggiamento di Trump, né quello del Deep State fanno sperare che ci si possa presto muovere in questa direzione.
Lo scambio di proclami tra il presidente iraniano Rohani e il premier israeliano Netanyahu sembrerebbe confermare lo scetticismo. Tuttavia, al di sotto dell’asprezza verbale, sembra intravvedersi una possibilità almeno per l’inizio di trattative che, come già detto, possono però partire solo da un’azione congiunta degli attori esterni che sponsorizzano i due contendenti.