In una conferenza stampa tenutasi sabato a Mosca, il gen. Igor Konashenkov, portavoce del ministro della Difesa russo ha lanciato contro gli Stati Uniti un’accusa affatto velata. Egli ha detto che “in Siria lo stato islamico è ancora presente solamente nei territori detenuti attualmente dagli Usa”. L’accusa per chi segue almeno un po’ le vicende siriane, è chiara: si intende dire che anche se l’Isis non è stato direttamente la “quinta colonna” in Siria dei paesi occidentali, sicuramente lo si è lasciato fare, ogni qualvolta è avvenuta una certa “coincidenza di interessi” contro il nemico comune, Assad.
In proposito, ci sono una varietà di fatti che avvalorano questa tesi.
Di questi, certamente quello più eclatante è che l’occupazione statunitense della Siria del nord (conclusasi all’inizio del 2018), sì è svolta quasi senza combattere.
Si potrebbe dire che quindi è stata una bella vittoria. In fondo, sconfiggere un nemico senza combattere è indicata come la massima abilità nel famoso libro L’arte della guerra del gen. Sun Tzu (600 a.C.), considerato il miglior stratega militare di sempre. In questo caso però non stiamo parlando di un nemico qualunque, stiamo parlando dell’Isis, responsabile di efferati delitti, dell’uccisione di centinaia di civili (compresi donne e bambini) e atti di terrorismo in tutto il mondo e anche in Europa.
Ebbene gli Stati Uniti non hanno scelto di sconfiggere l’Isis, bensì hanno pensato come lo stato islamico sarebbe potuto tornare utile in funzione dei propri progetti in Siria. La soluzione scelta da Washington nei confronti dei terroristi dell’Isis, è stata semplicemente offrir loro di cambiare casacca; ovvero la possibilità di transitare nelle milizie filo-occidentali delle Syrian Democratic Forces (Sdf). Agli elementi rimanenti delle forze dell’Isis — esclusi perché stranieri o per aver rifiutato l’accordo — è stato acconsentito di permanere, in stato di protezione, in un vasto territorio a nord dell’Eufrate in corrispondenza con la frontiera irachena. Allo stesso modo, è stata lasciata indenne dagli attacchi dalla coalizione statunitense una sacca più piccola che si trova in un’area direttamente a ridosso del fiume Eufrate, immediatamente prospiciente alla città di Abu Kamal, detenuta dalle truppe siriane. E’ da queste enclavi “embedded” nel territorio controllato dagli Stati Uniti — che per quattro mesi sono stati esenti dagli attacchi della coalizione anti-Isis a guida Usa — che sono partiti decine di sanguinosi attacchi contro le forze governative siriane.
In definitiva queste sacche sono state conservate perché l’Isis continuasse l’aggressione contro le forze siriane. L’ultimo di questi attacchi (che sono quasi quotidiani) venerdì scorso è avvenuto in modo più violento del solito, con utilizzo di parecchi veicoli imbottiti di esplosivo, guidati da attentatori suicidi. Il risultato è stato che i miliziani neri sono penetrati fino al centro città di Abu Kamal, prima di essere respinti.
Tutto ciò è in linea con la politica degli Usa che persegue l’intenzione di mantenere il conflitto in Siria a tempo indeterminato per far pressione sul governo siriano e sui russi. Tuttavia questa strategia sembra non aver fatto i conti con i paesi limitrofi, i cui interessi sono opposti, a ragione del fatto che il lungo periodo di instabilità ha portato serie conseguenze anche al loro interno.
Eccetto Israele, le leadership di tutti i paesi confinanti con la Siria sono critiche nei confronti degli Stati Uniti, soprattutto per l’inaffidabilità. Questo sentimento è molto sentito in Iraq dove si accusa apertamente Washington di aver favorito l’ascesa dell’Isis. Il malumore è condiviso da tempo anche dalla Turchia (che ha aderito ai negoziati di Astana), adirata per il tentato colpo di stato e per l’appoggio americano fornito ai curdi in prospettiva di uno stato autonomo.
La novità è che ora — alla pari di Iraq e Turchia — anche la Giordania si è riposizionata nei confronti del governo siriano ed ha già deciso di interrompere l’addestramento dei terroristi nel suo territorio, nel quadro di una diffusa riappacificazione con il governo siriano. In questo senso, la scorsa settimana Amman ha preso l’importante decisione di riaprire il valico di Nassib (prima della guerra il passaggio delle merci fruttava alle casse erariali giordane quasi 400 milioni dollari al mese).
La nuova posizione di re Abdullah è stata decisiva per mitigare la posizione israeliana che ora sembra optare per un accordo con la Siria, viste anche le nuove crescenti tensioni in Palestina che calamitano in modo prioritario l’attenzione di Tel Aviv. In questo contesto, senza dubbio sono stati decisivi i recenti summit avvenuti tra funzionari russi, giordani, israeliani e statunitensi ad Amman (Giordania). E’ grazie a questi incontri che inaspettatamente si è addivenuto ad un accordo secondo il quale verrà consentito al governo siriano di riconquistare le città di Daara, Kuneitra e le zone adiacenti al confine israeliano e giordano occupate dalle milizie antigovernative. L’accordo prevede comunque come contropartita l’allontanamento delle forze iraniane e di Hezbollah dalle stesse zone che passeranno sotto la custodia dell’esercito siriano.
L’offensiva governativa partirà il 14 giugno alla fine del Ramadan ma c’è da scommettere non passerà senza ulteriori insidie esterne, false flag, provocazioni intentate dall’occidente. Non è sicuramente un caso che a far data dall’inizio della campagna militare contro i ribelli a Daara, ovvero dal 14 giugno (che è anche l’inizio dei mondiali di calcio in Russia), si sovrappone la minaccia dell’Ucraina di invadere con ingenti forze le auto-proclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk.
In proposito, il presidente russo Putin ha già fatto sapere che il governo ucraino dovrà affrontare “gravi conseguenze” se simile eventualità si concretizzasse. Da parte sua la Nato, come per incendiare ulteriormente il clima, sta preparando una vasta esercitazione che coinvolgerà 18mila uomini di 19 nazioni, proprio a ridosso del confine russo.
E’ chiaro che si tratta di eventi strettamente interconnessi e non casuali, che chiariscono molto sulla natura del conflitto siriano.