La crisi di governo che si è aperta nei giorni scorsi in Giordania potrebbe sembrare marginale di fronte alla tragica situazione in cui versa l’intera regione. Si tratta invece di un segnale che sarebbe bene non trascurare, perché il Regno di Giordania non solo occupa una posizione centrale nell’area, ma è stato finora uno dei pochi Stati stabili del Medio Oriente. All’inizio di giugno, il primo ministro giordano, Hani al-Mulki, ha dato le dimissioni dopo parecchi giorni di manifestazioni di protesta contro l’inasprimento delle imposte e la riduzione dei benefici fiscali su beni di largo consumo. Al-Mulki ha fino all’ultimo rifiutato di bloccare la legge da lui ritenuta necessaria per rispettare le condizioni poste dal Fondo monetario internazionale per la concessione di ulteriori prestiti.
Il re Abdullah II è intervenuto personalmente per congelare l’aumento delle imposte su carburanti ed elettricità, dichiarando che non è giusto che siano solo i cittadini a sopportare il costo delle riforme. Secondo The Jordan Times, il sovrano ha chiesto al governo e al Parlamento di riconsiderare tutta la questione, tenendo conto dell’interesse generale e della necessità di combattere l’evasione fiscale e l’inefficienza di parte dell’amministrazione pubblica. Il nuovo premier, già ministro dell’Istruzione nel precedente governo e in passato economista alla Banca Mondiale, ha sospeso la legge avviando ampie consultazioni. La situazione economica del Paese non è certamente florida: secondo Al Monitor, la disoccupazione ha raggiunto il 18%, con il 20% della popolazione al livello di povertà, e il debito pubblico è al 95% del Pil. E’ quindi ampia la dipendenza dagli aiuti esterni, che condiziona la politica giordana. Questi aiuti provengono, oltre che dal Fmi, da Stati Uniti e da altri Stati arabi, in particolare dall’Arabia Saudita. Nei giorni scorsi si è tenuta una riunione con i sauditi, gli Emirati e il Kuwait che ha portato allo stanziamento di 2,5 miliardi di dollari in cinque anni a sostegno dell’economia giordana.
La stabilità della Giordania è in gran parte dovuta alla fedeltà della popolazione locale alla monarchia, anche perché la dinastia hascemita fa risalire le sue origini direttamente alla famiglia di Maometto. L’ordinamento dello Stato non è certamente equiparabile a una democrazia di tipo occidentale, ma rimane comunque uno dei più aperti nella regione. Secondo gli schemi occidentali, potrebbe essere paragonata a una “monarchia illuminata”. Uno dei problemi interni maggiori è dato dal fatto che ormai più del 50% della popolazione è di origine palestinese, mentre i sistemi elettorali e, quindi la composizione del Parlamento, continuano a privilegiare il precedente sistema tribale fedele alla monarchia. Le ultime elezioni, nel settembre 2016, si sono svolte con una legge elettorale più aperta e, pur dando ancora la netta maggioranza alle forze fedeli alla monarchia, hanno visto eletti alla Camera anche esponenti del partito islamico affiliato alla Fratellanza musulmana, che non aveva partecipato alle precedenti tornate elettorali.
Accanto ai problemi interni e a quelli economici, turbano la stabilità giordana anche le questioni di politica estera. Il Regno di Giordania ha sempre tenuto un atteggiamento filoccidentale, anche durante la Guerra fredda, quando Stati vicini, come l’Iraq e la Siria, erano schierati con l’Unione Sovietica. Ora, anche la politica estera del Regno sembra essere messa in difficoltà dagli ultimi confusi sviluppi della situazione in Medio Oriente. Pur essendo l’unico Stato arabo, insieme all’Egitto, ad aver firmato un trattato di pace con Israele, la Giordania è stata uno dei promotori della presa di posizione dell’Onu contraria allo spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme voluto da Trump. La Giordania ha partecipato alla coalizione a guida saudita che interviene nello Yemen, ma sembra preoccupata dalla politica aggressiva della nuova dirigenza saudita nella regione e non ha preso parte alle sanzioni contro il Qatar volute da Arabia Saudita e Stati del Golfo. Anche nei confronti dell’Iran si è assistito negli ultimi tempi a un riavvicinamento, sia pur cauto, ma che porta il Regno fuori dallo scontro in atto tra sauditi, Usa e Israele da una parte e l’Iran dall’altra.
Un equilibrio difficile da mantenere, ma essenziale per tutta la regione e che dovrebbe essere tenuto nel dovuto conto da Stati Uniti ed Europa.