A sei settimane dalle elezioni politiche in Libano, il presidente del Consiglio designato, il sunnita Saad Hariri già alla guida del precedente esecutivo, non è ancora riuscito a formare il nuovo governo. Un fatto di certo non sorprendente dati i tempi ultimamente necessari per formare governi in Europa, in situazioni meno difficili di quelle libanesi. Tuttavia, proprio la situazione difficile in cui versa il Medio oriente e i riflessi che questa ha sul Paese dei Cedri rendono particolarmente auspicabile un accordo il più possibile rapido tra i partiti libanesi per un governo di larghe intese.



L’assetto istituzionale libanese è caratterizzato da un complesso equilibrio tra le varie appartenenze religiose e le ultime elezioni hanno reso palesi le divisioni che esistono anche all’interno delle singole comunità, essendo le principali la cristiana maronita, la musulmana sunnita, la musulmana sciita e quella drusa, di origine musulmana ma a sé stante. Un discrimine particolarmente importante è l’atteggiamento verso l’Iran e verso il coinvolgimento in Siria delle milizie armate del partito sciita Hezbollah. Questo coinvolgimento, i suoi costi in perdite umane e i rischi che comporta per l’intero Paese cominciano a essere discussi anche in campo sciita. I maroniti sono divisi tra il partito che fa capo al presidente Aoun, alleato di Hezbollah, e altri due partiti che si sono invece all’opposizione. Malgrado un accordo di massima tra una parte dei maroniti, i sunniti del partito di Hariri, che ha però perso un terzo dei seggi, e Hezbollah, la formazione del governo continua a incontrare notevoli ostacoli.



Come già visto per la Giordania, anche per il Libano sono determinanti i rapporti con Arabia Saudita e Iran, e le loro mal sopportate interferenze, così come i problemi connessi con i rifugiati. Alle centinaia di migliaia di profughi palestinesi, ospitati in Libano ormai da tre generazioni, si sono negli ultimi anni aggiunti un milione e mezzo di rifugiati provenienti dalla Siria e, in parte, dall’Iraq. I rifugiati ammontano a più di un quarto della popolazione, rendendo la situazione oggettivamente insostenibile, malgrado gli aiuti internazionali.

E’ perciò comprensibile che, dopo la sconfitta dell’Isis e il consolidamento delle aree occupate dalle forze governative siriane, Beirut abbia elaborato un piano di rientro graduale dei profughi siriani, con il necessario coinvolgimento del governo di Damasco. Alla guida dell’operazione è stata posto il direttore generale della Agenzia per la sicurezza nazionale, così da non coinvolgere direttamente membri del governo nella collaborazione con il regime di Assad. L’inizio dell’operazione ha provocato uno scontro diretto tra il ministro degli Esteri libanese ad interim e l’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati, che è contraria al piano di rientro in quanto non ritiene ancora sufficientemente sicura la situazione in Siria.



Il ministro Gebran Bassil, genero del presidente Aoun, ha accusato l’agenzia dell’Onu di fare pressioni sui rifugiati affinché rinuncino a rientrare in patria. Ha anche deciso di non rinnovare i permessi di soggiorno ai funzionari dell’Agenzia e alle loro famiglie. Il portavoce dell’Unhcr ha risposto alle accuse del ministro affermando che l’Agenzia rispetta il diritto dei rifugiati di decidere liberamente sul loro ritorno in patria e lo sostiene, se la decisione è libera e adeguatamente informata. L’Agenzia si dichiara molto preoccupata della decisione sui permessi di soggiorno, che impedirebbe il regolare lavoro con i rifugiati, e si augura che venga immediatamente ritirata. Come si vede uno scontro aperto, dietro il quale appare il critico rapporto con il governo di Damasco.

Le relazioni con il regime di Assad sembrano segnare anche recenti posizioni della Chiesa maronita che, come riporta AsiaNews, per bocca del patriarca Bechara Raï ha chiesto il ritiro del decreto di naturalizzazione di 375 cittadini stranieri, cristiani e musulmani, di nazionalità siriana, palestinese e irachena. Accanto a problemi di natura giuridica e al sospetto che vengano privilegiate posizioni personali o partitiche, vi sarebbe anche la vicinanza di alcune di queste persone ad Assad e il tentativo di aggirare in questo modo le sanzioni internazionali. L’emanazione del decreto è avvenuta con una segretezza sospetta nella procedura, che ha portato il Partito socialista progressista, cui aderisce la maggioranza dei drusi, a presentare un ricorso al Consiglio costituzionale.

Ancora una volta si ha la conferma che senza la fine della guerra in Siria tutto il Medio oriente rimane a rischio di ulteriori conflitti. Nel prossimo luglio si terrà a Sochi un incontro per discutere sull’argomento ma, come ai precedenti incontri ad Astana, parteciperanno solo Russia, Iran e Turchia. E senza gli Stati Uniti risulterà ancora una volta impossibile porre fine alla guerra.