La nave Lifeline è sbarcata a Malta e i suoi immigrati saranno smistati in otto paesi europei, salvo la Germania che dice no. L’epilogo della vicenda prefigura molto da vicino la linea che l’Italia intende difendere nel Consiglio europeo che inizia oggi a Bruxelles: tutti i paesi europei devono farsi carico degli ingressi, il fatto è che molti di quei paesi, per ragioni di consenso, da quell’orecchio non ci sentono e puntano a scaricare il problema sugli stati di primo approdo (Italia, Spagna, Grecia). E senza condivisione dei salvataggi in mare, l’Italia — ha detto ieri Conte in Parlamento — è pronta a mettere il veto su un eventuale documento finale. Il presidente del Consiglio dovrà stare attento, dice al sussidiario Mario Mauro, ex ministro della Difesa nel governo Letta — perché gli hotspot in Africa sono “una soluzione utopica che serve a quelli che in Europa vogliono lavarsi la coscienza risolvendo il problema a casa degli altri, ma senza il sì dei paesi di transito. Gli accordi vanno fatti con i paesi di provenienza”.
Cosa pensa delle scelte del governo Conte per quanto riguarda le navi Ong, da ultimo la Lifeline?
Tutti i soccorsi degli ultimi 11 mesi sono avvenuti entro le 80 miglia dichiarate da Tripoli zona di competenza Sar di ricerca e soccorso. Quella italiana è di mezzo milione di chilometri quadrati, ma finora operavamo su uno specchio di mare due volte più grande: metà del Mediterraneo. La Guardia costiera ha l’obbligo di intervenire se riceve “direttamente la segnalazione di una emergenza in atto”, anche fuori dalla propria area Sar. Fino all’estate 2017, la Centrale operativa di Roma inviava la segnalazione dei migranti in mare al Paese di competenza, che poteva essere Malta, la Tunisia, l’Algeria o la Libia. Nessuno però rispondeva. Oggi la Guardia costiera di Tripoli è operativa, ma le chiamate di “soccorso” continuano ad arrivare a Roma. Esigere da parte italiana il rispetto delle regole è sacrosanto, al contrario troppo spesso le Ong sembrano muoversi con l’intento politico di mettere in difficoltà il governo italiano.
A che scopo e per conto di chi?
Non sono un complottista e non penso ad una trama dei tanto temuti plutocrati globalisti alla Soros, ma nel mondo delle Ong sopravvivono ideologie capaci di mobilitarsi di volta in volta contro questo o quello Stato democratico appoggiandosi magari a nazioni che hanno interessi divergenti.
Oggi comincia il Consiglio europeo. Come giudica la posizione che l’Italia ha difeso domenica scorsa a Bruxelles?
L’Italia aveva bisogno di lanciare un processo di riforma dell’accoglienza dei migranti che finalmente la qualificasse come un problema europeo. I paesi di Visegrad non si sono presentati. Gli altri si sono limitati ad ascoltare. Ma il testo delle proposte italiane ha molti elementi di buon senso e questo potrebbe essere un fattore inaspettato nella valutazione degli atti di un governo verso cui molti sono prevenuti.
Quali sono a suo giudizio i punti di forza e i punti di debolezza della proposta italiana?
Se non riesce a realizzare un’efficace politica di regolazione e gestione dei flussi migratori, tutto l’edificio europeo perderà la sua credibilità residua. Occorre un approccio integrato, multilivello, che coniughi diritti e responsabilità e l’Italia vuole contribuire costruttivamente alla formulazione di questo nuovo approccio. Conte lo ha detto bene e questo è il punto di forza: passare dalla gestione emergenziale alla gestione strutturale del fenomeno immigrazione. Ciò secondo il governo si realizza in primo luogo con la regolazione dei flussi primari (ingressi) in Europa, solo così si potranno regolare successivamente i flussi secondari (spostamenti intra-europei). Bene anche intensificare accordi e rapporti tra Ue e Paesi terzi da cui partono o transitano i migranti e investire in progetti.
E i punti deboli?
E’ debole invece l’idea di centri di protezione internazionale nei Paesi di transito, i cosiddetti hotspot, per valutare richieste di asilo e offrire assistenza giuridica ai migranti.
Salvini ha parlato di hotspot nel sud della Libia, ma le autorità libiche — quelle che ha incontrato Salvini — hanno detto no.
Macron e Merkel hanno lasciato intravedere, come soluzione del problema per noi più drammatico, il miraggio della creazione di hotspot in terra nordafricana. Un’idea suggestiva: i fuggitivi dall’Africa centrale verrebbero raccolti e accuditi da qualche parte dell’entroterra libico o nigerino o maliense, o ancora della costa tunisina oppure egiziana sotto la protezione di forze armate della Ue o di altri organismi internazionali. Militari e personale scelto di questi organismi si occuperebbero poi di dividere i perseguitati politici dai cosiddetti “migranti economici”, che per le leggi internazionali non godrebbero di un identico diritto. E che, perciò, quegli stessi Paesi dovrebbero incaricarsi di rispedire alle loro terre d’origine.
E’ proprio così che funzionerebbe. Che cosa non la convince?
La trovo una soluzione utopica che serve a quelli che in Europa vogliono lavarsi la coscienza risolvendo il problema a casa degli altri, ma senza il sì dei paesi di transito. Gli accordi vanno fatti con i paesi di provenienza dei migranti perché non lascino partire chi non è nelle quote convenute. E le quote, lo ricordo, oggi sono esclusiva competenza nazionale.
Dunque su questo punto la proposta italiana è debole.
Direi che anche la proposta italiana soffre del volontarismo tipico delle classi dirigenti europee dell’ultimo ventennio. Si pensa cioè che i paesi di provenienza e di transito accettino supinamente i rimedi europei. Niente di più sbagliato, il sovranismo dei paesi segnati dai flussi migratori ci lascerà con l’amaro in bocca.
Quali Stati hanno una posizione inconciliabile con la nostra e perché?
Circa l’80 per cento del patrimonio economico dei paesi cosiddetti subsahariani, le ex colonie francesi come il Niger, la Repubblica Centrafricana, il Ghana, il Senegal, il Mali, è gestito direttamente da Parigi in cambio di poche briciole. Da lì vengono i migranti. I francesi insomma sono in parte la causa del fenomeno che intendono addossare a paesi come il nostro accusati di fare poco e male. E le proposte di Parigi non appianano le divergenze con Italia e Spagna, anzi Conte ha bocciato la proposta francese di centri di accoglienza chiusi in Europa.
“Non vogliamo diventare il campo profughi europeo”, ha detto Conte.
Bene. Ma resta il problema di sapere sviluppare quelle alleanze capaci di ricondurre Macron a posizioni meno ipocrite e utilitaristiche.
Chi dovrebbero essere i nostri interlocutori nel Consiglio europeo?
Non basta pensare solo a chi sosterrà le tesi del governo domani, si deve immaginare per esempio la guida della prossima Commissione europea e condividere questo progetto con quanti più possibile.
Lei cosa farebbe?
Io per esempio lancerei la Merkel come presidente della Commissione. Ha voluto finora una Europa tedesca, potrebbe in quel ruolo con la stessa forza creare le condizioni per una Germania europea e ridare spessore ad un livello di maggiore integrazione su temi essenziali come migrazione, difesa e politica estera comune.
Se potesse, come modificherebbe la proposta italiana in Consiglio europeo?
Il problema rimane la linea politica. L’Italia deve convincere i partner non solo con le proprie rivendicazioni legittime, ma esprimendo una visione. Il governo cosiddetto populista deve fare delle scelte. Basti vedere l’andirivieni sul tema euro per capire che gli altri faticano con ragione, anche quelli più vicini, a capire le nostre intenzioni.
Come giudica la politica tedesca di fermare gli immigrati in Turchia con soldi europei?
Angela Merkel prospettò per prima ai governanti di Egitto e Tunisia l’idea di costruire a casa loro lo stesso genere di centri di accoglienza della Turchia, accompagnandola con un’offerta di denaro — mezzo miliardo di euro —altrettanto generosa di quella accettata dalla Turchia, ma la risposta fu un categorico no. Le fu spiegato che lì da loro la situazione non era quella di Istanbul, Ankara o delle zone di confine tra Turchia e Siria, e le furono elencati i convincenti motivi per i quali l’operazione non era fattibile.
E così alla fine la cancelliera tedesca ha chiuso un accordo con un solo interlocutore.
Sì, quello che intendeva usare la leva dell’accoglienza dei rifugiati siriani per fare pressione sull’Europa nel tentativo di condizionare il processo di adesione alla Ue. Ma il flusso verso il Mediterraneo non è fatto di rifugiati come i siriani, bensì di migranti economici, e nessun paese nordafricano accetterà per soli soldi di tenersi gente che può destabilizzare scenari già fragili e compromessi da un faticoso sviluppo economico. La strategia tedesca ha salvato i vicini dell’est europeo ed inguaiato l’Italia, complice la mancata sorveglianza sull’accordo Ue-Turchia del governo Renzi.
Lei prima ha detto che gli accordi vanno fatti con i paesi di provenienza dei migranti. Qual è la situazione negli Stati africani subsahariani?
Per ogni 100 ingressi nel nostro Paese almeno 85 possono essere attribuiti a ragioni principalmente economiche, una ricerca di condizioni migliori che può essere spiegata in buona parte dall’esplosione demografica che sta vivendo il continente. Per capire di che cosa stiamo parlando, basti dire che nell’Africa subsahariana nel 1990 c’erano 500 milioni di persone, più o meno come ora in Europa, oggi sono un miliardo, e tra venticinque anni toccheranno quota 2 miliardi. Sul fronte della crescita, negli ultimi trent’anni sono stati fatti progressi importanti: solo nell’ultimo decennio, nei Paesi dell’Africa subsahariana, il reddito pro capite annuo è passato da circa 1.200 a 1.650 dollari (in Ue 34.861 dollari), con un miglioramento di oltre il 30 per cento, rimanendo però tra i più bassi al mondo.
E’ giusto o no il principio “aiutiamoli a casa loro”?
Si può dire tutto, ma dobbiamo pensare che si tratta di contrastare forze di lungo periodo, come demografia e differenze di reddito, che continueranno ancora per molto tempo a rappresentare importanti fattori di attrazione verso l’Europa. Preso atto di questa situazione, il principio di voler investire in Africa per far fronte alla crisi migratoria incontra due ordini di problemi: l’insufficienza dei fondi stanziati, che spesso hanno un orientamento ondivago e non pianificato, e la scarsa affidabilità dei governi che beneficiano dei finanziamenti. Inoltre la crescente crisi migratoria ha spinto gli organismi europei a dirottare i capitali destinati allo sviluppo verso obiettivi più di breve periodo. Una percentuale rilevante di questi fondi, infatti, viene utilizzata per l’accoglienza dei rifugiati sul proprio territorio e non si traduce in un trasferimento di risorse.
Vale anche per l’Italia?
Il nostro Paese nel 2016 ha destinato il 34% degli aiuti pubblici, invece che allo sviluppo in Africa, all’accoglienza dei rifugiati sul suolo italiano, passando in termini assoluti da 983 milioni di dollari allocati nel 2015 ad oltre 1,66 miliardi del 2016, con un incremento di quasi il 70%.
E’ diffusa la tesi — da Moscovici a vari opinionisti — che l’emergenza migranti è più virtuale che reale e il dato sarebbe comprovato dal calo dei flussi. Che cosa ne pensa?
Il cardinale Gualtiero Bassetti è stato chiaro in proposito, dicendo che “al fenomeno delle migrazioni va riconosciuta la sua complessità senza ridurlo ad una questione di speculazione politica. Una complessità che dividerei in 3 grandi questioni — ha detto sempre Bassetti —. La prima è una questione umanitaria: le vite umane vanno salvate tutte, senza se e senza ma. A partire dai bambini e dalle donne incinte. La seconda è una grande questione internazionale, con mille implicazioni, che nasce nelle aree di crisi del pianeta e si sviluppa poi nei Paesi di transito dei flussi migratori. Vicende complesse di cui deve farsi carico, senza dubbio, la comunità internazionale”. E infine “c’è la questione dell’integrazione nelle società di accoglienza”.
Se le cose stanno così…
Se non è emergenza questa, cosa lo sarebbe? La verità è che da nazioni democratiche e ancora un poco cristiane è lecito aspettarsi più visione e più giustizia.