Lafarge, il gruppo francese tra i leader mondiali nella produzione di cemento, potrebbe aver finanziato l’Isis. È questo il sospetto che ha portato alle indagini sulle attività del cementiere in Siria, tra il 2011 e il 2015. L’accusa è pesante: complicità in crimini contro l’umanità per aver «finanziato attività terroristiche» e «messo in pericolo la vita dei propri dipendenti». Giovedì scorso a Parigi tre giudici sono stati incaricati dell’inchiesta su Lafarge, che è accusato di aver pagato quasi 13 milioni di euro a gruppi armati in Siria, di cui cinque milioni allo Stato Islamico, per mantenere in funzione il suo stabilimento di Jalabiya, nel nord del paese, così da avere la garanzia della circolazione dei materiali e della sicurezza dei propri dipendenti. Due Ong, tra cui l’associazione Sherpa, avevano presentato una denuncia contro Lafarge, spiegando che non potevano ignorare ciò che stavano facendo con quei pagamenti. Due dei dirigenti del gruppo che sono coinvolti nel caso non lavorano più per l’azienda.



LAFARGE HA FINANZIATO L’ISIS IN SIRIA? LE ACCUSE

Il gruppo Lafarge ha spiegato in un comunicato, riportato da Euronews, che il sistema di vigilanza della sua controllata siriana non ha permesso di individuare le carenze ma che alcune misure in merito sono state già adottate. Il quotidiano Libération parla di «decisione storica», senza precedenti per un gruppo o una società. Secondo le indagini, gran parte delle mazzette sarebbero finite, direttamente o indirettamente, nelle tasche dei jihadisti dell’Isis. Sei ex dirigenti del cementificio francese Lafarge, tra cui l’ex presidente Bruno Lafont, sono già finiti sotto inchiesta per finanziamento di gruppo terroristico. Intanto la multinazionale è stata sottoposta ad un controllo giudiziario che prevede una cauzione di 30 milioni di euro. Gli inquirenti stanno anche indagando sulla presunta vendita di cemento all’Isis. L’ong Sherpa si è costituita parte civile per difendere undici dipendenti. A tal proposito, chiede fondi di indennizzo per i lavoratori che sono stati costretti a lavorare sotto pressione e sotto la minaccia dell’Isis. 

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