Se è vero che il successo inizia quasi sempre dopo un fallimento, forse tra qualche tempo Emmanuel Macron riuscirà davvero a trovare una soluzione per la Libia. Al momento, però, il vertice di Parigi dello scorso 29 maggio, fortemente voluto dal presidente francese per tentare di dipanare la complessa questione libica, ha prodotto un nulla di fatto. 



Il summit, convocato in pompa magna all’Eliseo, oltre a quella dell’inviato dell’Onu per la Libia Gassan Salamé e dei 5 membri permanenti del Consiglio di sicurezza della Nazioni Unite, ha visto la partecipazione di una pletora di rappresentanti di vari Paesi: Germania, Olanda, Ciad, Niger, Algeria, Marocco, Tunisia e soprattutto Egitto ed Emirati Arabi Uniti, storici sostenitori di Khalifa Haftar, e Turchia e Qatar, da sempre vicini a Tripoli. 



Anche il “parterre” delle rappresentanze libiche era piuttosto nutrito, per lo meno rispetto al vertice dello scorso luglio, che aveva visto solo Fayez-al Serraj, il leader onusiano e  Khalifa Haftar, redivivo uomo forte dell’est libico. Al recente summit, oltre al “federmaresciallo” della Cirenaica e al debole leader di Tripoli, erano presenti anche il presidente dell’alto consiglio di Stato Khaled al-Mishri e il presidente del parlamento, con sede a Tobruk, Agila Saleh.  

Tuttavia, non basta mettere quanti più attori possibili intorno a un tavolo per risolvere i problemi del Paese. L’ambizioso “piano Marshall per la Libia” di Macron, non ha condotto alla firma di nessuna dichiarazione di intenti tra i rappresentanti libici ma solo ad un impegno “a voce” per rispettare le decisioni prese. Una reticenza sintomatica della persistente sfiducia tra le parti e del mancato riconoscimento reciproco tra gli attori presenti. 



Inoltre, questa assenza di collaborazione, malcelata da qualche stretta di mano in quel di Parigi, potrebbe pregiudicare l’obiettivo più ambizioso proposto — o quasi imposto — dal presidente francese: elezioni a dicembre del 2018. L’opzione più probabile, infatti, è che una volta a casa, specie nel momento in cui si troveranno a fare i conti con le milizie (a scanso di equivoci i veri padroni della Libia) i vari leader continueranno a lavorare in ordine sparso, cercando di rafforzare la propria compagine, come hanno fatto fin qui. D’altra parte non è la prima volta che i rappresentanti libici, o presunti tali, non rispettano la parola data. Prova ne sia che, a neppure 48 ore dall’incontro parigino, al-Mishri, esponente di spicco della Fratellanza musulmana, avrebbe ribadito di non riconoscere la legittimità di Khalifa Haftar come comandante in capo dell’esercito libico. Non certo un buon inizio. 

Al di là delle scaramucce e dei disaccordi tra le parti, però, quel che è più grave è l’errore di fondo che c’è nell’approccio di Macron alla questione libica: le elezioni politiche in un contesto così frammentato e instabile non possono essere considerata la soluzione per il consolidamento di un nuovo status quo. Sarebbe necessario invertire la prospettiva: non elezioni per stabilizzare la Libia, ma tentare di stabilizzare la Libia prima di indire elezioni. A conferma di ciò basti pensare che molte delle milizie che controllano i consigli politici e militari di alcune importanti città — tra cui gli Zintan e le potenti milizie di Misurata e Sabratha — hanno boicottato il vertice. Come già ricordato, in Libia sono anche (e soprattutto) le milizie che comandano. Non è forse per questo che l’oramai ex ministro dell’interno Marco Minniti ha fatto un accordo con alcune di loro e non con i vari leader presenti all’Eliseo per fermare i flussi migratori? Pensare a un percorso elettorale senza questi attori vorrebbe dire fare i conti senza l’oste e compromettere fin dall’inizio il processo di stabilizzazione politica del Paese.

Pertanto, anche se “Macron ha tentato di rubarci la Libia” (come hanno recitato molti titoli di giornali) sfruttando la crisi politico-istituzionale italiana, alla fine non ci è riuscito neppure questa volta. Detta in altri termini, ha cercato di fare un gol a porta vuota ma la palla è andata ben oltre la rete.

Non dobbiamo però gioire degli errori degli altri, né sperare che la Francia fallisca per avere una “rivincita”, perché un fallimento non gioverebbe a nessuno e in primo luogo ai libici. Abbiamo ancora la possibilità di giocare da protagonisti e di avere un ruolo nel futuro del Paese. Siamo presenti nel territorio con l’ambasciata a Tripoli e il consolato a Bengasi e negoziamo da tempo con gli attori locali. Ci sono ancora importanti rapporti economici che fungono da trait d’union tra l’Italia e la Libia. Basti pensare che sarà un consorzio di imprese italiane a costruire il nuovo aeroporto di Tripoli, con un contratto del valore di 79 milioni di euro. Non resta che augurarci che il neonato governo restituisca all’agenda libica la priorità che merita.