Il G7 è un evento fondamentale che dà risalto a quella che è l’essenza della relazione diplomatica: l’incontro tra le élite politico-statuali delle potenze in campo nel dominio del mondo. Solo da queste relazioni può emergere un sistema internazionale in grado di resistere alle guerre e alle crisi sempre possibili. La guerra, come ci insegnava Raymond Aron, può essere evitata non solo minacciando i conflitti, ma soprattutto stabilendo fitti reticoli di comunicazione tra gli stati e le loro classi politiche.
Il ruolo delle élite che non circolano, ma che salgono invece i gradini delle burocrazie in campo internazionale, è esattamente questo: accompagnare e sorreggere con le competenze la circolazione delle élite politiche anche nelle relazioni internazionali. La storia è maestra di vita, soprattutto in quel che concerne il dominio del mondo, e bisogna ascoltarla, studiarla, trasformarla in storiografia e, se si è capaci, anche in teoria, in questo caso in teoria delle relazioni internazionali.
La storia d’Italia è un laboratorio straordinario a questo riguardo. Nel cuore del Mediterraneo e in un fianco sud della Nato in pericolo per lo sfarinarsi possibile della Turchia nel suo rapporto con l’Occidente, tracimando il suo neo-autoritarismo in un dominio neo-ottomano, l’Italia può protendersi sull’Africa del Nord e sulla Mesopotamia solo se è in grado di rafforzare la sua alleanza con gli Usa. In caso contrario essa si troverebbe compressa, ridotta in uno stato ancor più forte di dipendenza rispetto a quella attuale nei confronti di Francia e Germania.
Secondo il Trattato tedesco-francese del 1963, alla Germania spetta la dominazione dei Balcani, alla Francia quella del Mediterraneo. Il Regno Unito ha da troppo tempo abbandonato il dominio del Mediterraneo emasculando la sua presenza a Cipro in una sorta di museo dei ricordi di un dominio africano e mediorientale che ha rappresentato il punto più alto, e ormai perduto, della civilizzazione europea nei deserti dei nomadi, nelle giungle dell’Africa Nera sino alle civiltà millenarie dell’Egitto e degli Stati dell’Eufrate.
Oggi il Mediterraneo è divenuto un lago atlantico contendibile con lo stabilirsi dei russi in quel della Siria e nei rapporti sempre più intesi della Russia con il rinnovato dominio in pectore ottomano. Il ruolo dell’Italia non può non essere che quello che magistralmente hanno impersonato i fondatori della nostra patriottica politica estera del secondo dopoguerra: i leader democristiani che si sono avvicendati in quella responsabilità per decenni senza poterla poi rinnovare, se non per i brevi sprazzi di un’anticipazione innovatrice rispetto al Medio Oriente nella circolazione delle élite socialiste in tempo craxiano.
Essere democristiani sempre in politica estera: ecco il lascito che bisogna rinnovare. Fare ciò che agli Usa non è possibile fare, come facemmo durante la guerra del Vietnam e nei tempi duri del confronto con uno stalinismo prevaricatore e rinnegatore anche del trattato di Yalta. L’Italia rappresentava gli interessi di lungo periodo degli Usa senza essere irrigidita dagli obblighi che hanno le grandi potenze, che usano sapientemente le potenze medie, regionali, per anticipare grandi svolte o compiere mediazioni che a coloro che occupano i posti di prima fila sono impossibili.
Oggi il Governo Conte ha nelle sue fila un esponente che fu nel governo Monti e Letta nel ruolo degli Esteri e ha ministri dell’Economia e delle relazioni europee esponenti di un establishment che intende le relazioni tra stati continentali in senso anticipatore e in grado di interpretare i rischi che nell’ordoliberismo sono racchiusi anche per le relazioni internazionali. Il governo Conte deve — sin da questo suo primo G7 — continuare la tradizione italiana in politica estera e rafforzare i legami diplomatici con le potenze europee, a partire da quelle che rendono il nostro ruolo difficile, certo, ma che sono indiscutibilmente i nostri partner nella vita stessa delle relazioni internazionali: Francia e Germania.
Una nazione da sempre dipendente dall’esterno per la sua forza dimidiata di grande potenza economica, ma di piccola potenza militare, a congenita cultura pacifista, non può che scegliere l’alleato che con più sagacia deve difendere la rilevanza del suo ruolo nella politica di potenza mondiale. Per l’Italia il mondo di potenza è il Mediteranno, è l’Africa. Per questo gli Stati Uniti sono ancora e sempre il nostro alleato naturale, perché sono una potenza extraeuropea che insieme alla sicurezza sposta anche una bilancia dei poteri nel Vecchio continente. Ruolo un tempo svolto dalla Gran Bretagna, che rivolge ormai il suo sguardo al mondo extraeuropeo e alla Cina.
Naturalmente essenziale, ieri oggi e in futuro, e non solo nelle relazioni internazionali è il silenzio, il silenzio operoso e non il fragore. Guai a perdere di vista questa stella polare.