Durante l’assemblea dell’Abi, il suo Presidente, Antonio Patuelli, ha evocato scenari di crisi latinoamericana come causa di politiche apertamente nazionaliste e contrarie o critiche verso l’Ue. A dir la verità i populismi che nell’arco di questi ultimi vent’anni si sono sviluppati in America Latina hanno sofferto crisi che sono legate a quella mondiale, con conseguente perdita di benefit derivanti dall’economia, specie sulle vendite di materie prime, che alla fine, come sempre capita, hanno ridotto la valanga dei sussidi statali e rivelato sistemi di una corruzione altissima, sponsorizzati quasi totalmente dai beneficiari delle elemosine che non hanno quasi mai saputo toglierli dalla povertà, ma anzi, li hanno mantenuti.



È successo in Argentina e Brasile, che sono entrati in crisi profonde, sta accadendo in Ecuador, anche se in minor misura, e pure la Bolivia non è che stia in acque molto tranquille. Ma di certo queste osservazioni provengono da un pulpito, quello delle banche, che non può essere definito un modello di etica e morale, anzi… e la lista delle entità bancarie non propriamente deamicisiane è molto più lunga di quella degli Stati populisti sudamericani con i quali ha in comune il denominatore di creatrice di povertà, visto che di persone sul lastrico ne sono state messe a decine di migliaia.



Il riferimento alla permanenza nell’Ue può essere condiviso, a patto però che la stessa risponda più ai principi del Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli che al club finanziario che tuttora la distingue, con Stati che, come nel caso della grave problematica dell’immigrazione dalla Libia, a parole sono campioni di solidarietà, tranne poi comportarsi in maniera diametralmente opposta. Ormai lo ripetono tutti fino alla noia: se non si metterà la parola fine alle politiche di austerità che finora hanno provocato la crisi quasi eterna dei Paesi che le hanno applicate alla lettera (ma non quelli che furbescamente le predicano, ma si guardano bene dal metterle in atto) il rischio che l’Europa corre è quello di una frantumazione dalle conseguenze gravissime, che già è alle porte (anzi le ha superate abbondantemente) e che ha la sua più chiara dimostrazione nei paesi del cosiddetto “Gruppo di Visegrad”, abbondantemente finanziati dall’Ue nelle proprie politiche che gli hanno permesso di godere di uno sviluppo notevole, ma portando avanti politiche di quello stesso razzismo che fa parte del “j’accuse” specie di Francia e Germania nei confronti dell’Italia.



Se si vuole uscire dalla crisi bisogna puntare su politiche di sviluppo all’interno delle quali gli Stati e le banche agiscano con più etica e proponendo e facendo applicare principi che, in un medio termine, provvederanno a far muovere economie arenatesi nell’immobilità più assoluta. Ne potranno guadagnare tutti, anche le banche stesse, perché una società in sviluppo attira investimenti e fa muovere capitali e di conseguenza porta benefici ai sistemi bancari.

E proprio dal Sudamerica ci viene un esempio: quello del Cile, che nel corso di 30 anni, basandosi su piani economici liberali, ha ridotto la povertà dal 34% al 5%, ha un’economia ancora trainante sebbene la questione delle materie prime come il rame (al contrario che in altri Stati) ha rappresentato un volano economico non indifferente.

Rispolveriamo quindi gli ideali keynesiani e della sussidiarietà di Foucault e mandiamo una volta per tutte in soffitta il “contratto sociale” di Rosseau che, nelle sue rivoluzioni, ha portato alla civiltà più disastri di due guerre mondiali e continua a farlo. E mettiamo pure in atto principi di banche etiche che possano essere il volano trainante di processi che fattivamente hanno sconfitto, nei Paesi in cui sono stati applicati, la povertà.