In un suo recente articolo sul Sussidiario, Gianluigi Da Rold collega la crisi della sinistra italiana a quella più generale europea, ponendo però correttamente in luce alcuni aspetti particolari dell’esperienza italiana, in primis lo stretto collegamento con l’Unione Sovietica, un tratto distintivo rispetto a gran parte della sinistra europea. Questo stretto collegamento ha portato il Pci a una traiettoria simile a quella dei compagni sovietici, con il progressivo abbandono della spinta ideologica iniziale e la sostanziale riduzione del partito a strumento di mantenimento e gestione del potere, sempre più lontano dalle esigenze del popolo che pretendeva di rappresentare. Un processo che sembrerebbe comprovato dai deludenti risultati delle ultime elezioni.
In Italia il sistema democratico ha fornito alternative al Pci e ai suoi successori, ma negli Stati eredi dell’Urss sono rimasti al potere i gestori del vecchio regime, famiglie, caste o apparati che fossero. E’ questo il caso anche della Russia, dove al comando sono solo esponenti del precedente regime e dell’apparato burocratico che lo sosteneva: i cosiddetti “apparatciki”. Vale la pena, però, di sottolineare un aspetto che può suonare sorprendente: nonostante la sua carica dirompente, la Rivoluzione d’Ottobre non ha cambiato radicalmente i principi guida sottostanti alla storia della Russia. Malgrado l’internazionalismo marxista-leninista proclamato da Mosca, il cuore dell’Unione Sovietica è sempre rimasto russo, anche quando chi la guidava era il georgiano Stalin o l’ucraino Kruscev. Le celebrazioni nel 2015 per i settant’anni della vittoria sul nazismo sono state per molti versi un tributo a Stalin, russo ad honorem. Per converso, si è rifiutata l’unione della Crimea all’Ucraina, considerata un “regalo” fatto dall’ucraino Kruscev ai suoi conterranei. Ciò che importa non è la nazionalità di origine, ma che le azioni corrispondano agli interessi della nazione russa.
Il regime sovietico ha inoltre continuato la politica zarista di russificazione di molti territori dell’Unione e il russo è lingua usuale di forti minoranze, per esempio in Ucraina, Lettonia, Estonia, Kazakistan, Kirghizistan. L’attuale dirigenza, se da un lato ha sostanzialmente mantenuto le strutture di comando del vecchio sistema, pur de-ideologizzate, dall’altro sembra porsi in diretto collegamento con le politiche zariste. Sotto questo profilo, per quanto possa essere ritenuta strumentale, è piena di significato l’attenzione che Vladimir Putin dedica alla Chiesa ortodossa, inserendosi così in quello spirito nazionale storico che si rifà alla Santa Madre Russia, la Terza Roma protagonista nella storia, erede della Roma Capitolina e di Costantinopoli.
In questo quadro, è chiara la strategia di Putin, cioè il tentativo di riportare una significativa presenza russa in tutte quelle aree in cui la Russia, con gli zar o i sovietici, era presente e spesso determinante. Un primo bilancio sembrerebbe positivo per Putin, che ha saputo approfittare delle debolezze dei suoi concorrenti, innanzitutto degli Stati Uniti. A Washington, e in buona parte dell’Occidente, si è pensato che con il crollo dell’Unione Sovietica si era chiusa la partita e che il mondo si stava avviando verso un nuovo “sole dell’avvenire”, questa volta a guida americana: si è parlato perfino di “fine della storia”. Un errore culturale, ancora prima che politico, e i “vincitori” si trovano ora a fronteggiare non solo vecchi avversari, come Russia e Cina, ma anche nuovi nemici, come un sempre più diffuso e violento estremismo islamico.
E’ pericoloso interpretare il confronto in atto tra le tre grandi potenze, Stati Uniti, Russia e Cina solo come uno scontro di potere tra governi, perché tutti questi tre Stati hanno al loro fondo il concetto di una missione da svolgere nel mondo. Lo si è visto per la Russia, lo si può affermare per la Cina e il suo rifarsi alla propria millenaria civiltà. Occorre poi tener presente che vi è risentimento per il modo in cui l’Occidente ha cercato di emarginarli, una reazione molto pericolosa se si tiene conto di quanto l’umiliazione della Germania dopo la Prima guerra mondiale abbia facilitato l’ascesa del nazismo. I meccanismi descritti valgono anche per gli Stati Uniti, che si sono sempre identificati con la loro funzione di garanti della democrazia universale, una funzione che assume connotati anche qui da missione religiosa: l’eccezionalismo americano. La fine del cosiddetto “secolo americano” e del ruolo di “guardiani” del mondo sembra difficile da accettare per buona parte delle élite americane. Per gran parte degli americani sembra invece più importante badare ai propri interessi, sposando così lo slogan di Trump: “America first”.
Come si vede, il nazionalismo non è una prerogativa dei “populisti”, ma è ben diffuso ovunque, come è naturale che sia, quando nazionalismo non significa eliminazione delle altre nazionalità. E sarebbe, oltretutto, conveniente eliminare questa tentazione. Si pensi, per esempio, all’attuale guerra dei dazi: non sarebbe più conveniente arrivare a nuovi accordi che eliminino le eventuali, e concrete, distorsioni nel commercio internazionale? Tuttavia, siamo ancora in una fase in cui vi è tuttora spazio per raggiungere accordi che evitino catastrofiche rotture, ma rimane la domanda: vi è questa volontà?