In un precedente articolo avevo citato la progressiva confessionalizzazione della politica e delle forme istituzionali come una delle cause della sempre maggiore radicalizzazione della situazione in Medio Oriente. A questa confessionalizzazione non sono sfuggiti né i palestinesi, con il contrasto tra la laica Fatah e la islamista Hamas, né Israele, con il crescente peso dei partiti religiosi, anche ultraortodossi. I conflitti tra Fatah e Hamas, che sembravano aver trovato una via di composizione, sono invece rimasti molto netti e contribuiscono, insieme all’irrigidimento della politica interna di Israele, ad allontanare ulteriormente la soluzione della decennale “questione palestinese”.



L’attuale governo presieduto da Benjamin Netanyahu sembra sempre più soggetto alle pressioni dei partiti religiosi, anche per la debolezza personale del premier, attualmente sotto inchiesta preliminare per tre presunti casi di corruzione, cui si aggiunge un processo a carico della moglie per malversazione di denaro pubblico. L’influenza dei partiti religiosi si verifica non solo nel Consiglio dei ministri, ma anche nel partito stesso di Netanyahu, il Likud, come dimostra un imbarazzante caso dell’inizio di luglio. Da più di due anni è in discussione un piano per permettere a uomini e donne di pregare insieme al Muro del Pianto, sia pure in un padiglione speciale distinto dalla sezione tradizionale in cui non è permessa la preghiera congiunta. Per seguire lo sviluppo del progetto, sostenuto dagli ebrei progressisti e ostacolato dagli ultraortodossi, è stata costituita una commissione interministeriale. Nel giro di una settimana, tutti i tre componenti si sono dimessi: il rappresentante ultraortodosso ha accusato Netanyahu di aver già deciso tutto, rendendo la commissione inutile, gli altri due ministri, una del Likud e una del partito sionista religioso, hanno dichiarato di non poter approvare il piano perché contrario alla tradizione ebraica.



L’episodio ha dimostrato la complessità dei rapporti tra politica e religione in Israele, con divisioni non solo tra laici e religiosi, ma anche tra questi ultimi, e non indifferenti. La cosa che sembra aver più colpito i media israeliani è stata, tuttavia, la difficoltà incontrata da Netanyahu nel sostituire la dimissionaria del suo partito, in quanto nessuno dei ministri del Likud si è fatto avanti per paura di inimicarsi gli elettori ortodossi. Si delinea così il rischio di creare un distacco tra la dirigenza del partito, che teme di perdere voti a destra, e la maggioranza degli elettori del Likud, secolari o religiosi “moderati”.



Una opposizione simile tra i principi laici dello Stato e le sue manifestazioni religiose sta avvenendo in questi giorni con un duro confronto a livello istituzionale tra Netanyahu e il presidente della Repubblica, Reuven Ribli, anch’egli del Likud. Ieri è stata approvata una modifica costituzionale così intitolata: “Israele: Lo Stato Nazione del Popolo Ebraico”, abbreviata in “Legge sulla nazionalità”. Oltre che ribadire che Israele è la patria del popolo ebraico, la legge dichiara che una “unificata Grande Gerusalemme” è la capitale di Israele e che l’ebraico è la lingua ufficiale dello Stato, relegando l’arabo, ora co-lingua ufficiale, al rango di “lingua con uno status speciale”. Inoltre, un articolo della legge consente alle comunità di costituirsi su base etnica o religiosa, impedendo ad altri di inserirvisi. Questa norma contraddice una sentenza della Corte Suprema del 2000, che stabiliva illegale riservare ai soli ebrei il poter vivere in un certo villaggio.

Sulle stesse linee della Corte è la lettera di Ribli a Netanyahu e al Parlamento, in cui il presidente si è chiesto se veramente si vuole aprire alla discriminazione e alla esclusione di una persona sulla base della sua origine, posizione contraria ai fondamenti dello Stato ebraico. Alla severa reprimenda di Ribli si sono uniti diversi parlamentari, anche del Likud, e diversi parere legali, per non parlare della reazione sdegnata e preoccupata della minoranza araba. Paradossalmente, anche tra i sostenitori della proposta sono sorti dubbi, dopo che esponenti ultraortodossi hanno messo in dubbio la “autenticità” ebraica di tutti coloro che non rispondono ai loro criteri, per esempio una parte degli immigrati dalla Russia o dall’Etiopia.

Nonostante tutto, Netanyahu ha richiamato i parlamentari della coalizione di governo al “dovere” di votarla e la legge è passata, non senza difficoltà (62 favorevoli, 55 contrari, due astenuti). Forse la ragione di questa impuntatura del premier è chiarita in un articolo su Al Monitor dell’ex ministro Yossi Beilin. Quando Netanyahu è sotto pressione, come è ora, non ha alcuna remora a ricorrere a ciò che riesce sempre a infiammare molti israeliani: l’odio per gli arabi. Quali siano i costi dell’operazione, anche per lo stesso Israele, non è difficile da immaginare.