La tesi che interpretava la dissoluzione dell’Unione Sovietica come “fine della storia”, con l’inizio di un’era di stabilità sotto il controllo di un Occidente a guida statunitense, è stata parecchio criticata e con molta ragione. Sembrerebbe, invece, che questa tesi sia stata assunta dai “gruppi di comando” in Occidente e dai governi di loro espressione. Non si spiegherebbe altrimenti la “sorpresa” di fronte alla multipolarità che sta sempre più contrassegnando la nostra epoca, in aperta contraddizione con la citata tesi. Né si spiegherebbe l’irriducibile volontà degli apparati statunitensi, che li si chiami establishment o Deep State, ad opporsi alla fine di quel “secolo americano” che ne rappresentava la sintesi ideologica e operativa.
Questa fine è stata riconosciuta perfino dal Dipartimento della Difesa, che in un rapporto dell’anno scorso parla di uno scenario “post-U.S. primacy”. Il documento riconosce che l’ordine mondiale governato dagli Stati Uniti e dai loro alleati in Europa e Asia sta collassando e pone come obiettivo il mantenimento dello status quo, fondato su una determinante supremazia americana in campo militare. In questa visione viene considerato una “minaccia” per gli Usa ogni Stato che, anche senza essere un dichiarato nemico, perseguendo i propri interessi nazionali metta in discussione quelli statunitensi.
Il rapporto segnala come molto pericolosa anche la crescente messa in discussione delle “strutture tradizionali dell’autorità” e forse ciò spiega anche le reazioni di fronte al successo elettorale di movimenti e partiti politici definiti antisistema, perché non catalogabili all’interno del controllato sistema dei partiti tradizionali. Particolare preoccupazione desta il fatto che questo successo non è limitato a Paesi imprevedibili come quelli dell’Europa dell’Est o all’Italia, ma si estende a Paesi “modello” come la stessa Germania. Ciò che sembra carente in queste posizioni è un esame oggettivo delle ragioni alla base di questa evoluzione, forse perché si trasformerebbe in un esame di coscienza.
In questo quadro rientra anche l’elezione del “fuori sistema” Donald Trump, maldigerita non solo dagli avversari del Partito Democratico, ma perfino da buona parte dell’apparato del Partito Repubblicano. Il successo di Trump viene quindi attribuito al fatto che parla alla “pancia” degli elettori, accusa per la verità agevolata dai modi di porsi “caratteriali” di The Donald. Facile replicare che gli altri parlavano alle “tasche” di quell’1 per cento che governa il mondo. Si è così scatenata una guerra a Trump che ha trasformato l’iniziale e controverso Russiagate in una vera e propria accusa di alto tradimento. Un esito questo sì sorprendente, perché questo attacco sembra minacciare più gli Stati Uniti come sistema statale che non di per sé Trump. Non pare probabile che quest’ultimo si faccia da parte da solo e un processo per tradimento, o una “soluzione definitiva” come successo per altri presidenti, significherebbero accelerare il collasso dell’egemonia Usa di cui parla il rapporto del Pentagono.
L’aspetto realmente sorprendente è che la strategia di Trump è coerente con il nuovo assetto mondiale multipolare. Se si prescinde dai modi quantomeno eterodossi, il suo rifiuto degli accordi globali in favore di accordi bilaterali, o comunque più ristretti, è un implicito riconoscimento che gli Stati Uniti non sono più in grado, come un tempo, di egemonizzare queste grandi strutture. In accordi più limitati è invece possibile per Washington far valere il suo peso, giocando di volta in volta sui vari aspetti, economici, finanziari, militari. E ciò vale per amici e avversari, Canada o Europa, Cina o Russia.
I rapporti con Putin sono una buona dimostrazione delle modalità che Trump ritiene vincenti nel condurre le trattative: un po’ da mercato del bestiame (chi urla di più alla fine ha la vacca), un po’ da biscazziere (bluff, mosse del cavallo, rilanci azzardati) e, comunque, con un notevole disinteresse per la coerenza (forse la ritiene, con Oscar Wilde, la virtù degli sciocchi). Probabilmente la sua carriera di tycoon, più o meno di successo, lo porta a ritenere più importante il risultato rispetto ai mezzi con cui viene ottenuto. Sotto questo profilo, non credo siano in molti nell’establishment americano, e non solo, a poter scagliare la prima pietra.
Peraltro, il comportamento dopo l’incontro di Helsinki con Putin è stato eccessivamente contraddittorio perfino per Trump, ma diversi commentatori statunitensi non hanno potuto esimersi, pur nelle durissime critiche, dall’osservare che nei fatti la politica estera di Trump continua quella di Obama. Altri sottolineano che le sue critiche al Deep State sono condivise da molti cittadini, poco sensibili alle sue controverse modalità di comunicazione. Ed emergono, infine, le già citate preoccupazioni per le conseguenze delle imputazioni per tradimento, drammaticamente divisive all’interno della nazione e decisamente negative per il ruolo geopolitico degli Stati Uniti. Una sorta di eterogenesi dei fini per chi pensa che eliminando Trump possa continuare il “secolo americano”.