L’odore acre dei gas lacrimogeni ancora si percepisce sulla grande Spianata delle Moschee, a Gerusalemme. I soldati israeliani ieri erano entrati in forze sulla Spianata, dopo la fine delle preghiere del venerdì, per allontanare coloro che avevano deciso di rimanere invece di allontanarsi immediatamente. Azione di polizia preventiva con il contorno di 40 palestinesi feriti e sei di loro arrestati. D’altra parte i timori e la tensione sono alti a Gerusalemme, ma soprattutto a sud nella striscia di Gaza, come anche a nord di Israele a ridosso della linea di tregua con la Siria, sulle Alture del Golan.
Non è affatto semplice per Netanyahu portare avanti la chiusura dei tanti dossier aperti nella regione. Ha incassato dal presidente Trump il riconoscimento americano di Gerusalemme, capitale dello stato di Israele (in barba ad ogni trattativa con i palestinesi). Di rimando Netanyahu ha fatto votare dal parlamento israeliano una legge fondamentale (in Israele non esiste una vera e propria Costituzione) nella quale Israele è definito “lo Stato-nazione del popolo ebraico”. Una legge che porta una parte dei suoi abitanti (i palestinesi musulmani e cristiani) nella spiacevole condizione di cittadini di serie inferiore. Un particolare che ha invelenito gli animi dei palestinesi, e che non è sfuggito neppure a molti israeliani, e tra questi il direttore di orchestra Daniel Barenboim (ebreo, argentino di nascita, ora israeliano) che ha affermato “di vergognarsi” in questo momento di essere un israeliano.
Poi ci sono i dossier Gaza, Siria ed Iran, ma qui i problemi si complicano ancor di più.
Il ministro per la sicurezza israeliana Gilad Erdan afferma che verso Gaza si sono fatti “passi in avanti verso un’ampia operazione militare”. Prima ancora, il taglio del sostegno finanziario statunitense alle Nazioni Unite e alla sua organizzazione per l’aiuto ai profughi palestinesi (l’Unrwa) sta provocando il licenziamento di un migliaio di lavoratori stagionali, e la prossima cessazione dei buoni alimentari e dell’assistenza sanitaria. Gaza si avvicina così al collasso economico, mentre regna la penuria di carburante, elettricità ed anche acqua potabile. Senza dimenticare le centinaia di morti e le migliaia di feriti tra i palestinesi che hanno manifestato negli ultimi mesi sul confine con Israele. Ieri è morto un altro manifestante.
In questa situazione, come un pompiere stremato, opera l’inviato dell’Onu Nicolay Mladenov, un politico bulgaro che ha il sostegno di Putin. Mladenov sta facendo la spola tra Tel Aviv e Gaza, per evitare un nuovo grande conflitto. Promette aiuti umanitari e soldi per la ricostruzione di Gaza, in modo da far diminuire la dilagante disoccupazione.
Ancor più impegnati i russi lo sono sul fronte nord, sul confine provvisorio (dal 1974) tra Siria e Israele. Netanyahu ha bussato alla porta di Putin per chiedere il ritiro delle milizie iraniane dalla Siria, dopo il loro importante sostegno al presidente siriano Bashar al Assad. La loro presenza sarebbe una minaccia devastante per Israele, se Netanyahu e Trump decidessero di sferrare un attacco militare all’Iran (dopo aver cancellato l’accordo di Barack Obama con l’Iran sul nucleare).Tutte cose che anche Putin sa bene: forse per questo il leader russo ha proposto di far arretrare di soli 100 chilometri le milizie iraniane dal confine con Israele. Netanyahu ovviamente ha rifiutato, troppo poco ha detto.
Il fragile status quo, così, per il momento, rimane anche sulle Alture siriane del Golan e sulle regioni settentrionali di Israele.