La politica americana del cosiddetto “regime change” ha portato a una serie impressionante di fallimenti: in Afghanistan, Iraq e Libia. Una serie di fallimenti che hanno portato morti e distruzioni immani nei Paesi “liberati” e, a differenza di quanto successo in Europa dopo la seconda guerra mondiale, nessun serio Piano Marshall. Alla serie possiamo aggiungere la Siria che, dopo una guerra settennale, è ora un Paese distrutto, con almeno 400mila morti e milioni di profughi. In Siria, peraltro, il fallimento è stato completo e Bashar Assad è tuttora in sella, anzi ha riconquistato gran parte del territorio.



Tutti questi casi rivelano un clamoroso errore di valutazione: la fallace convinzione che una volta abbattuto il despota di turno ci si sarebbe trovati di fronte un Paese pacificato e governato con un sistema democratico all’occidentale. 

In Afghanistan gli americani e il governo da loro sostenuto, dopo diciassette anni di guerra e almeno 150mila morti, cui si aggiungono 3500 soldati Nato, si trovano a combattere contro i risorgenti talebani, la sempre presente al Qaeda e perfino formazioni collegate all’Isis. In Iraq, dopo quindici anni dalla caduta di Saddam Hussein, il Paese è diviso tra curdi e arabi, sunniti e sciiti, e i cristiani e altre minoranze religiose sono state costrette in gran parte ad emigrare. Washington, che sostiene i curdi in Siria, non è riuscita ad evitare che la Turchia, sua alleata nella Nato, attaccasse i curdi nel territorio iracheno, occupandone una parte. La caduta di Gheddafi ha gettato la Libia in una situazione caotica che la pone costantemente alla ribalta dei media, anche per le conseguenze sul grave e drammatico problema dell’immigrazione attraverso il Mediterraneo.



In Siria, invece, Assad non è stato abbattuto e il vero regista della situazione non sta a Washington, ma a Mosca: Vladimir Putin. I suoi alleati, Damasco e Teheran, hanno preso il sopravvento e sarà difficile scalzarli dalle loro posizioni e, comunque, sarà necessario l’appoggio di Putin. Come dimostra la questione della ritirata degli iraniani dalla zona delle Alture del Golan, che Israele ritiene essenziale per la sua sicurezza: sia Netanyahu che Trump sono dovuti ricorrere alla mediazione di Putin, anche se un accordo definitivo non è stato ancora raggiunto. Israele ha già condotto attacchi aerei alle forze iraniane in Siria, ma uno scontro diretto avrebbe conseguenze disastrose. Con la disdetta dell’accordo sul nucleare, gli Stati Uniti di Trump sono diventati con Israele i peggiori nemici dell’Iran e Putin, sostenitore di Teheran ma non nemico di Tel Aviv, è determinante per evitare un conflitto globale. Intanto, suona del tutto ironico che l’allontanamento di iraniani e di jihadisti dal Golan sia gestito dall’esercito di Assad, che gli americani volevano abbattere.



Vi è però un’altra guerra, meno esposta ai media ma altrettanto tragica, in cui gli americani stanno perdendo la faccia: quella nello Yemen. Anche qui Trump ha seguito i suoi predecessori e si è schierato acriticamente a fianco dell’Arabia Saudita, che Washington, per essere coerente con i principi proclamati negli altri casi, dovrebbe considerare non come uno dei suoi più stretti alleati, ma come un regime da abbattere. La guerra civile in corso da tre anni ha causato migliaia di morti tra i civili, un numero che sembra limitato rispetto a quelli già visti, ma l’Onu ha dichiarato quella yemenita una delle più gravi catastrofi umanitarie degli ultimi decenni. L’80 per cento dei 25 milioni di abitanti sono in gravi condizioni umanitarie, le strutture sanitarie distrutte, il blocco dei porti rende ancor più insostenibile la situazione, aggravata da un’epidemia di colera. Qualche sussulto di indignazione ha creato negli Stati Uniti la notizia che la coalizione internazionale a guida saudita abbia usato bombe a grappolo contro la popolazione civile, ma ciò non ha impedito a Trump di firmare un ricco contratto di fornitura di armi a Riyadh. Peraltro, insieme a molti produttori europei, Italia compresa, e solo la Germania ha recentemente annullato le proprie esportazioni in materia rivolte ad Arabia Saudita e Turchia.

I ribelli sciti Houthi non sembrano tuttavia sull’orlo del collasso, anzi stanno rispondendo ai bombardamenti con il lancio di missili in territorio saudita, che non causano gravi danni ma provocano un forte senso di insicurezza tra i loro avversari. Inoltre, nei giorni scorsi gli Houthi hanno lanciato missili contro due petroliere saudite nel Mar Rosso e l’attacco ha indotto il governo saudita a sospendere le spedizioni di petrolio attraverso lo Stretto di Baab Al Mandeb fino a che la situazione non sarà tornata sicura.

Al di là degli effetti immediati sul prezzo del petrolio, questo evento porta in luce un altro aspetto del conflitto yemenita: il controllo dell’importante via marittima commerciale che passa dal Baab Al Mandeb. A questo fine è importante Aden, seconda città dello Yemen e capitale temporanea del governo sostenuto dalla coalizione, dopo che la capitale Sana’a è passata sotto il controllo degli Houthi. Aden è però teatro di continui scontri tra le forze governative, le milizie locali legate alla Fratellanza musulmana, appoggiate dal Qatar, e il Movimento Secessionista del Sud, sostenuto dagli Emirati. 

Si delinea così un ulteriore frattura, che potrebbe rendere ancora più caotico lo scenario di questo martoriato Paese, cioè il conflitto tra gli interessi divergenti dei due membri della coalizione più attivi sul campo: Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Un altro capolavoro della politica americana, pagato come sempre dalle popolazioni coinvolte.