La Turchia sta affondando velocemente, così come la sua moneta: la lira turca. Solo venerdì scorso la moneta ha perso quasi il 15% del suo valore nei confronti del dollaro e negli ultimi cinque anni il valore si è ridotto a meno di un terzo. I problemi del Presidente turco Erdogan sono molto complessi e non di facile soluzione e il crollo della moneta è il sintomo di molte malattie del gigante turco. Un’economia da più di 80 milioni di consumatori che nel corso degli ultimi anni ha visto rallentare il proprio ritmo di crescita e nel 2018 ha visto l’inflazione crescere a doppia cifra. 



La fiducia degli investitori è al minimo storico (di investitori italiani ne abbiamo molti, dal settore bancario con Unicredit al settore costruzioni con Astaldi) e anche per questo motivo la lira turca sta crollando. I debiti delle aziende turche sono spesso “quotati” in dollari o euro, mentre i ricavi sono in gran parte in lire turche. È chiaro che il costo del debito tende ad aumentare e la situazione rischia a breve di prendere una piega sempre più tragica.



Uno degli elementi di rischio è la perdita d’indipendenza della Banca centrale turca e il ministro delle Finanze Albayrak si è già mosso. Stampare moneta (in maniera massiccia e indipendente), come insegnano anche i casi del Venezuela o dello Zimbabwe, non solo non risolve problemi, ma rischia di portare a un’inflazione elevata e a una distruzione economica. Ma è chiaro che i problemi turchi non derivano solo dall’economia, ci sono anche delle questioni più profonde. 

Il Presidente Erdogan negli ultimi anni ha diviso sempre di più la Turchia tra buoni e cattivi, ma anche lo stesso “mondo esterno”. Non sono un caso le affermazioni “loro hanno i dollari, noi abbiamo la nostra gente, il nostro diritto e il nostro Dio” verso gli Stati Uniti, dai quali nel corso degli ultimi anni si è allontanata sempre di più. In generale è proprio la Turchia che lentamente sta uscendo dal blocco Nato e si sta avvicinando sempre di più alla Russia (con la quale i rapporti non sono mai stati ottimi). 



Le ultime decisioni dell’amministrazione Trump, con i dazi su acciaio e alluminio, hanno solo confermato le difficoltà esistenti tra il cosiddetto “blocco occidentale” e la Turchia. E le ulteriori affermazioni di Erdogan, “troveremo nuovi amici”, indicano questa possibilità di nuova direzione. La Turchia, storicamente, è sempre stata l’alleata atlantica nel Medio Oriente, ma dal 2013 in poi Erdogan si è visto sempre più come il nuovo leader indipendente di un Medio Oriente allargato. 

Anni fa scrivevo del rischio di una visione “buoni-cattivi” o di una Turchia sempre più spaccata da Erdogan. A distanza di cinque anni, si è arrivati al redde rationem. Gli investitori hanno paura che la Turchia possa prendere una direzione simile a quella del Venezuela, dove il sovranismo ha distrutto una democrazia e un’economia, portando alla fuga di milioni di persone.

I problemi turchi non sono solo di posizionamento: ci sono infatti anche problemi economici. La Turchia importa molto petrolio e questa materia prima è pagata in dollari. La caduta della lira turca porta ad avere un conto salato sia per i settori “energivori” che per la bilancia dei pagamenti. Questo fattore “petrolifero” farà aumentare ancor di più il tasso inflattivo già galoppante e rischierà di bloccare la crescita economica.

Erdogan, che voleva fare il nuovo leader, rischia di essere sempre isolato, anche perché i “nuovi amici”, saranno forti militarmente, ma hanno un prodotto interno lordo grande quanto Olanda, Belgio e Lussemburgo. Se la Turchia prendesse questa deriva, la situazione rischierebbe di cadere sempre più fretta in un baratro economico.

Al di fuori degli effetti sulle nostre imprese, non è positivo che un nostro partner economico importante (oltre 10 miliardi di euro le nostre esportazioni nel 2017) si metta all’angolo. È tempo di decisioni forti e fare comprendere al presidente Erdogan che l’Europa e l’Occidente in generale, sono la soluzione migliore per i turchi stessi.