Mentre la crisi finanziaria in Turchia è in pieno svolgimento vale forse la pensa mettere in un contesto una vicenda che altrimenti rischia di sembrare come spuntata dal nulla. Nella crisi finanziaria della Turchia si intersecano almeno tre livelli. Del primo più generale, le difficoltà dei Paesi emergenti in questa fase come risultato del rafforzamento del dollaro e del rialzo dei tassi americani, parleremo nei prossimi giorni; a questo proposito l’unica anticipazione su cui vorremmo sbilanciarci è che la prossima vittima, anche da un punto di vista mediatico, della “speculazione”, se così vogliamo chiamare questo fenomeno, potrebbe essere l’India, che già in queste ore comincia a dare chiari segnali di sofferenza. Tornando invece alla Turchia, ci sembra che quanto sta accadendo in questi giorni sia la conclusione di un processo in atto da diversi anni.
Il primo versante, che potremmo dire “geopolitico”, si apre con un’evoluzione inaspettata del conflitto siriano. La Turchia, che fino a un certo punto era, in qualche modo, intervenuta all’interno del suo sistema di alleanze storico anche sacrificando alcuni chiari rapporti economici (l’Iran?) si trova spiazzata prima dal rafforzamento dei curdi a sud e poi dall’entrata in scena della Russia con il fallimento dei tentativi di deporre Assad. L’inasprimento delle relazioni con la Russia dopo l’abbattimento del jet a fine 2015 e il blocco russo di tutti i rapporti commerciali ha obbligato la Turchia a scendere a patti con il nuovo “inquilino” nel teatro mediorientale. A metà del 2016 arriva un tentativo di colpo di stato dai contorni “oscuri” da cui Erdogan esce rafforzato. La Turchia si trova quindi in una situazione “geopolitica” complicata in cui l’interesse a rimanere con gli alleati storici sembra meno attraente.
Il secondo versante è quello economico. Negli ultimi dieci, quindici anni, l’economia turca è cresciuta a ritmi sostenuti. Dal 2002 a oggi il Pil turco è quadruplicato. Questa crescita spaventosa è stata principalmente sostenuta dai consumi e da una vera e propria bolla immobiliare ed è stata finanziata a debito. Soprattutto la grande maggioranza del debito emesso dalla Turchia e dalle società turche è stato emesso in valuta straniera e sottoscritto da investitori stranieri. L’economia turca per anni è andata avanti con i mitici “deficit gemelli”, più esportazioni che importazioni e deficit statale (un’altra economia con lo stesso problema oggi corre ai ripari con i dazi).
Riassumendo: la crescita turca viene finanziata a debito e con debito “straniero” in valuta straniera e si sostanzia in una “bolla” dei consumi privati e dell’immobiliare, quello che potremmo dire improduttivo (per esempio, 10mila nuove moschee in meno di 10 anni, secondo i conti del New York Times), e, solo nella fase finale, delle costruzioni, la “spesa produttiva”, senza un aumento delle esportazioni.
Possiamo discutere quale sia il ruolo della virata della politica monetaria della Fed, ma rimane il fatto che l’economia turca fosse strutturalmente fragile; l’indebolimento della lira rende molto più costoso il servizio del debito per lo Stato e le società turche e in un’economia con un deficit commerciale strutturale la svalutazione non aiuta. La “speculazione” trova terreno fertile in un’economia con queste caratteristiche in uno Stato che, geopoliticamente, sembra isolato.
La decisione di Trump di imporre sanzioni sull’acciaio turco, il 10 agosto, come risposta al fallimento delle trattative sulla liberazione del pastore americano Brunson detenuto in Turchia è stato il detonatore o l’acceleratore del crollo della lira degli ultimi giorni. L’annuncio di una telefonata tra Erdogan e Putin per discutere delle relazioni economiche tra i due Paesi non è stato accolto positivamente “dai mercati”. Oggi non si vede all’orizzonte una via in cui la Turchia riesca a frenare la speculazione autonomamente. I danni all’economia “reale” potranno solo amplificarsi. La Turchia ha bisogno di un aiuto esterno probabilmente sotto forma di prestiti.
Questo aiuto avrà come contropartita concessioni “geopolitiche”, soprattutto per quanto riguarda il conflitto siriano ma non solo. L’11 agosto Erdogan, in una lettera aperta sul New York Times, ha nei fatti dato la colpa di quanto sta accadendo agli Stati Uniti (ma ricordiamo che gli squilibri strutturali sono precedenti) e minacciato di voler trovare “nuovi amici e alleati”. Per nuovi amici e alleati si intende sicuramente anche la Russia e forse la Cina.
Oggi la questione è se la Turchia troverà un accordo con gli alleati storici oppure con i “nuovi”. Prima di questo accordo è davvero difficile vedere un’inversione.