L’incontro tra Giuseppe Conte e Donald Trump, ampiamente commentato anche sul Sussidiario, si è rivelato interessante sotto molti profili, innanzitutto per la politica interna italiana. Per questo aspetto, gli esiti dell’incontro sono stati ben descritti su queste pagine da Sergio Luciano: un incontro positivo per il governo giallo-verde, che ha ridato un ruolo a Conte, premier considerato finora piuttosto “sbiadito”. Non è da sottovalutare neppure l’osservazione, apparentemente una battuta, sul fatto che Conte non è dovuto ricorrere a “corsi accelerati allo Shenker per parlare un inglese fluente”, con un esplicito e crudele riferimento a Renzi. Negli incontri di questo tipo è decisamente importante poter non dipendere da un interprete per capire e farsi capire ed essere in grado di cogliere sfumature linguistiche e di espressione.
Si è anche sottolineato l’atteggiamento più freddo di Trump verso Emmanuel Macron, rispetto a quello più “amichevole” nei confronti di Conte. A parte possibili simpatie personali, può aver giocato la minore “pericolosità” e la maggior manovrabilità dell’Italia e del suo governo, o forse, il “sovranista” Trump si intende meglio con il “sovranista antisistema” Conte che con il “sovranista di sistema” Macron.
Comunque sia, sul fronte internazionale l’incontro ha aperto una prospettiva reale, seppur non semplice, per rendere più operativa la presenza dell’Italia nel caos libico. Questa presenza si era manifestata fattivamente, ma un po’ dietro le quinte, con il precedente ministro degli Interni Marco Minniti ed è attualmente continuata, in modo più rumoroso, da Matteo Salvini. Come ampiamente illustrato da Michela Mercuri sul Sussidiario, la vicenda libica è causa di un netto contrasto con la Francia, che risale a prima dell’avvento di Macron. Costui si limita a proseguire l’azione dei suoi predecessori, Sarkozy e Hollande, sia pure in modo più esplicito, con l’obiettivo di estendere l’area di influenza francese anche alla Libia e cercando di instaurare rapporti preferenziali con l’Egitto.
Come spiega Michela Mercuri nel suo articolo, l’Italia ha buone carte da giocare nella partita contro la Francia e potrebbe perfino contare su un appoggio da parte della Russia. È essenziale, però, rafforzare i rapporti con l’Egitto, altro fondamentale protagonista nella vicenda libica, e qui risulta determinante il ruolo dell’Eni. Tuttora dominante nella produzione di petrolio in Libia, malgrado i tentativi di sabotaggio della Francia appoggiata dal Regno Unito, l’Eni è partner importante anche dell’Egitto, dove ha scoperto il giacimento di Zohr, la più grande riserva di gas naturale del Mediterraneo, il cui sfruttamento è partito qualche mese fa. Su questi rapporti pesa, peraltro, la dolorosa vicenda dell’omicidio di Giulio Regeni, che il governo egiziano non ha ancora chiarito, malgrado le ripetute promesse.
L’incontro Conte-Trump ha anche evidenziato la dimensione mondiale assunta dalle migrazioni, sia economiche che causate da guerre e conflitti etnici e religiosi: se l’Italia ha a che fare principalmente con le migrazioni dall’Africa, gli Stati Uniti se la devono vedere con l’immigrazione dal Messico e dall’America Latina, né si possono dimenticare quelle dall’Asia o la drammatica situazione e il conseguente esodo dei cristiani in Medio Oriente, sotto la pressione islamica, o dei Rohingya musulmani in fuga dalla Birmania buddista.
Il già complesso quadro politico delineato più sopra viene perciò ancor più complicato dalla difficile gestione dei flussi migratori nel Mediterraneo, che vedono al centro proprio Italia e Libia. Entrambi i Paesi sono stati coinvolti nell’ennesima contesa internazionale scatenata dal caso della Asso 28, nave appoggio a una piattaforma petrolifera gestita dall’Eni e dalla compagnia petrolifera statale libica. Il rimorchiatore ha salvato, nelle acque territoriali libiche, un centinaio di persone da un gommone e le ha riportate nel porto di Tripoli, su richiesta delle autorità libiche. Il fatto ha scatenato dure reazioni in Ong (la già nota Open Arms), nella nostra sinistra (il deputato Leu Nicola Fratoianni in particolare) e all’Onu (secondo la Unhcr, l’agenzia per i rifugiati, l’Italia potrebbe essere citata in tribunale).
Come in casi precedenti, si è fatto gran sfoggio di richiami al diritto internazionale, ma sembra che l’unico esito possibile in punta di diritto sia che, comunque e in ogni caso, gli sbarchi debbano avvenire solo in Italia. Questa volta, il punto centrale è che i porti libici non possono essere considerati sicuri, una dichiarazione sorprendente se fatta da un’agenzia dell’Onu. Infatti, è proprio l’Onu che ha imposto il riconoscimento del governo di Tripoli in sostituzione di quello di Tobruk, nella parte orientale della Libia, fino ad allora l’unico governo libico riconosciuto internazionalmente. Suona quindi bizzarro che il porto della capitale di un governo praticamente creato dall’Onu sia ritenuto insicuro dall’Onu stesso. Sarebbe bizzarro, se il diritto internazionale non fosse ormai diventato la migliore dimostrazione del detto attribuito a Giolitti: “Per i nemici le leggi si applicano, per gli amici si interpretano”.