Sabato l’esercito arabo siriano (Saa) ha attaccato i miliziani nella parte settentrionale della provincia di Latakia. Saa ha gravemente danneggiato le posizioni difensive delle organizzazioni terroristiche Hayat Tahrir al-Sham e Partito islamico del Turkestan. Questo tipo di operazioni — eseguite con impiego massiccio della componente aerea e di artiglieria — sono propedeutiche per indebolire il sistema difensivo jihadista, in prospettiva della grande offensiva che avrà inizio agli inizi di settembre.



In vista, al fronte di Idlib si sono portate tutte le unità migliori dell’esercito siriano: le unità Tigre, le brigate della Guardia Repubblicana, la IV divisione corazzata e infine, la III divisione corazzata, la X divisione, la XV divisione (queste ultime reduci dalle battaglie nella Siria meridionale). Insieme alle truppe siriane sono presenti anche unità dei corpi speciali russi che probabilmente effettueranno operazioni di consulenza ed anche missioni specifiche dietro le linee nemiche.



Ciò che ci si attende è che l’attacco si sviluppi dalla zona di Jisr al Shougur e successivamente si estenda ad Hama. Date le esperienze precedenti, si può prevedere che i jihadisti effettueranno parecchi attacchi su altre zone, per alleggerire la pressione su Idlib. Inoltre, si asserraglieranno nel centro abitato con le conseguenti complicazioni per i civili.

Ci sono effettivamente i rischi di un disastro umanitario. Ciononostante Damasco non ha altra scelta: 100mila jihadisti rappresentano una minaccia costante per le città della costa e per la vicina Aleppo. Bisognerà usare ogni cautela, ma Idlib non può continuare ad essere usata come porto franco per gli estremisti radicali siriani e foreign fighters di tutto il mondo. Da parte sua la Turchia, per cercare di conservare la sua influenza in Siria, ha lanciato in battaglia il suo esercito e la sua componente di milizie irregolari. Aggredendo a nord la provincia di Idlib, spera di epurare le forze ribelli dalle milizie appartenenti ad al Qaeda, e di conseguenza di eliminare il più grande ostacolo per i negoziati. 



E’ prevedibile che i media nelle prossime settimane copriranno queste vicende in maniera parziale descrivendo per l’ennesima volta la liberazione di Idlib come un “assedio” contro i ribelli, combattenti per la libertà. Evidentemente la loro narrazione costituisce un frame ben lontano dalla realtà: il gruppo armato Hay’at Tahrir al-Sham — la forza predominate ad Idlib — è appartenente ad al Qaeda, ovvero alla principale organizzazione transnazionale mondiale del terrore salafita. Per capirci: il dissenso contro un qualsivoglia “regime” non è accostabile con un sistema che punisce un adolescente per il solo fatto che viene pescato a passeggiare con una sua coetanea che non è sua parente (come è documentato in un video diffuso da al Qaeda la settimana scorsa).

Vale anche la pena ricordare che esistono precise responsabilità da parte europea: a dare consistenza a queste formazioni è sia manovalanza siriana (pagata dall’estero) ma anche una legione straniera di jihadisti russi, marocchini, cinesi (iuguri) ed altri (stimata in 15mila uomini) elementi provenienti da tutto il mondo, a cui l’Europa ha dato ampie facilitazioni.

Idlib è quindi il quartier generale del terrore islamista internazionale, perciò la battaglia di Idlib andrebbe considerata come guerra combattuta anche per la nostra sicurezza. Tale valutazione però è lontana dall’agenda della leadership europea: a mano a mano che avanzano, le truppe governative rinvengono depositi di armi ed equipaggiamenti israeliani, europei e statunitensi, segno del costante appoggio occidentale agli jihadisti.

Quantunque i governi occidentali prospettino futili giustificazioni a loro discolpa e si difendano con le accuse, il metodo dell’utilizzo dell’instabilità per installarsi nelle varie aree strategiche continua ad essere quello descritto nella teoria del “caos costruttivo” (tanto cara a Donald Rumsfeld e al consigliere di George W. Bush, Michael Ledeen ben descritto nel documento “Defense Planning Guidance o Defence Strategy” per l’anno 1990, secondo il quale l’arma della destabilizzazione può sostituire l’intervento diretto.

Evidentemente ci troviamo di fronte ad una visione miope, le cui conseguenze non tarderanno ulteriormente a manifestarsi. Cosa accadrà infatti dopo la sconfitta degli jihadisti ad Idlib? Dove andranno le migliaia di militanti (addestratissimi) in fuga che finora vi avevano trovato rifugio? Basandosi sulle esperienze passate, possiamo ragionevolmente pensare che i terroristi saranno riposizionati altrove: durante la guerra siriana centinaia di miliziani di al Qaeda ed Isis hanno già trovato riparo in Ucraina meridionale. Molti di loro sono stati reimpiegati (in funzione antirussa contro le repubbliche autoproclamate del Donbass e di Lugansk) nella formazione paramilitare denominata Noman Chelebidzhihan o nel battaglione Dudayev in Ucraina (vedi qui e qui). Non si è trovato niente di meglio di reimpiegare contro le repubbliche filo-russe la jihad. Significa che non ci troviamo avanti ad un fatto episodico, un singolo fatto di cronaca criminale ma di fronte ad un metodo. La domanda è: quanto reggerà questo gioco pericoloso ed irresponsabile?