Durante le commemorazioni oggi a Praga, il premier ceco Andrej Babis è stato pesantemente contestato dalla folla che già questa mattina aveva attaccato con insulti e striscioni la sede della ambasciata russa nella capitale ceca. «Via di qui, agente della Stb, vai a casa, vergogna!» si sentiva in piazza contro il presidente-miliardario, leader del partito populista ANO, attaccato per il suo passato all’interno della famigerata polizia segreta comunista. «La libertà e la democrazia in questo paese non è minacciata. Ognuno è libero di dire ciò che vuole, di fondare un partito politico e di criticare quello che gli pare», ha spiegato Babis nel cinquantenne dell’invasione russa in Cecoslovacchia: la gente gli contesta però l’ipocrisia passata e attuale, con le politiche sostenute anche oggi in Parlamento dal Partito Comunista non riformato (il KSCM). Di diverso tono, e più accettato, il messaggio del premier slovacco Andrej Kiska: «Il nostro dovere più importante è proteggere la libertà e la capacità di determinare il nostro futuro senza preoccuparci che le decisioni da noi prese saranno represse con forza brutale». 



VACLAV HAVEL E LA RIVOLUZIONE NON VIOLENTA

L’uomo che ha permesso, forse più di tutti, di poter portare avanti in Cecoslovacchia il sogno di una liberazione non violenta dal “mostro” URSS è quel Vaclav Havel morto nel 2001, primo capo di stato post-comunista e responsabile di quella rivoluzione “di velluto” che con il gruppo di Charta77 permisero una lenta ma decisa liberazione dal totalitarismo sovietico. Come scriveva Tarquini su Repubblica il giorno dopo la morte di Havel, Vaclav con Lech Walesa e con papa Karol Wojtyla, con Jacek Kuron, Bronislaw Geremek e Adam Michnik, «fu uno dei massimi ispiratori della rivoluzione democratica che, iniziata con i movimenti dissidenti e poi partita nell’agosto 1980 a Danzica, Polonia, con l’alleanza per la libertà tra intellettuali e operai, nel 1989 rovesciò le dittature dell’Est e portò alla riunificazione dell’Europa». La svolta di Charta77 per il politico e drammaturgo fu decisiva: una lotta per la libertà nell’impero sovietico con un taglio culturale e religioso: una fitta rete di controrivoluzione che al di là del Muro riusciva a diffondere libertà e non odio, nonostante la dura repressione del KGB e della polizia segreta cecoslovacca. «Verità e amore devono prevalere su menzogna e odio», era il suo motto e oggi, nel ricordare l’invasione sovietica che mise fine alla Primavera di Praga, non possiamo non pensare che quello “slogan” in realtà è riuscito ad andare oltre persino ai carri armati. 



LA FINE DEL SOCIALISMO DAL VOLTO UMANO

Nella notte tra stasera e domani cade il 50esimo anniversario di uno degli eventi più importanti del XIX secolo europeo e che segnò, a suo modo, una data spartiacque non solamente per l’allore Cecoslovacchia, ancora ben lungi dal dividersi, ma anche per l’esperienza sovietica e per il modo in cui l’URSS fu cominciata ad essere vista nel mondo. L’invio dei carri armati di Mosca a Praga, e la susseguente “Primavera” del 1968 che ancora rivive nelle memorie di chi ne fu protagonista, segnarono infatti la fine di quell’esperimento di cui i vertici comunisti non solo in Unione Sovietica ma anche in Occidente andavano fieri, vale a dire il vanto di diffondere il modello del “socialismo dal volto umano”. Infatti, letti retrospettivamente, quegli avvenimento segnarono l’incrinarsi di una idea: all’epoca, furono gli stessi militari sovietici a rimanere perplessi dall’ordine di ripresentarsi in Europa non più come liberatori ma come invasori, peraltro ai danni di una nazione amica quale la Cecoslovacchia. Addirittura, qualcuno di loro pensava si trattasse di una semplice esercitazione e non di un’azione volta a stroncare con la violenza la stagione riformista di Alexander Dubcek, allora segretario del locale Partito Comunista. (agg. di R. G. Flore)



IL PRESIDENTE ZEMAN “SALTA” CELEBRAZIONI

L’occasione è di quelle solenni, dato che si celebra al contempo l’anniversario di una delle pagine più scure e controverse dell’esperienza comunista in Russia e, dall’altra, l’eroica resistenza dei cittadini dell’allora Cecoslovacchia a seguito dell’invasione dei carri armati sovietici. A 50 anni dalla cosiddetta Primavera di Praga, la Repubblica Ceca ricorda quei giorni drammatici e al tempo stesso elettrici con una serie di iniziative che, come si poteva facilmente immaginare, sono finite per diventare terreno di scontro politico. Infatti, ancora oggi a Praga e dintorni qualcuno ha cambiato retrospettivamente il giudizio sui fatti che avvennero nella notte fra il 20 e il 21 agosto del 1968 e a far rumore è soprattutto l’annunciata mancata partecipazione, da parte del Presidente Milos Zeman, alle commemorazioni che questa sera avranno luogo nella capitale ceca e intitolate simbolicamente “Non dimentichiamo, protestiamo!”. Infatti, da tempo Zeman è visto come un fervente filo-Putin e lui stesso, d’altronde, non ha fatto molto per nascondere le sue simpatie per il Cremlino. E per questo è finito nel mirino della stampa assieme ad altri illustri politici cechi, anche perché questa sera non ha preparato nemmeno alcun discorso commemorativo. Tuttavia, al suo entourage si è provato subito a smorzare le polemiche, ricordando che Zeman ha mostrato il suo coraggio e la sua condanna contro quella invasione già in tempi non sospetti, quando all’indomani dell’invasione fu anche espulso dal Partito Comunista locale in quanto dissidente. (agg. di R. G. Flore)

50 ANNI FA L’INVASIONE DELLA CECOSLOVACCHIA

Era la notte tra il 20 e il 21 agosto 1968 quando la libertà in Cecoslovacchia venne repressa (o almeno ritardata di qualche anno): ricorre in questi giorni il 50esimo anniversario dell’invasione dei carri armati dell’Unione Sovietica nei territori dove era in corso la Primavera di Praga, forse l’elemento più spontaneo e meno “violento” di quel terribile e “rivoluzionario” anno della storia mondiale. Quella dei carri armati mandati da Mosca, con l’appoggio di tutto il Patto di Varsavia (esclusa la Romania) fu la risposta durissima e totalitaria del comunismo imperante contro un tentativo di riformare dall’interno quel bolscevismo totalizzante. Il leader dei riformisti Alexander Dubcek idealizzò – e portò per qualche mese il sogno – un “socialismo dal volto umano” che così tante volte abbiamo sentito parlare negli ultimi 50 anni (a volte con “sparate” non attinenti alla realtà storica, ndr). La Cecoslovacchia alla caduta del muro di Berlino tornò ad essere divisa nelle due originarie e storiche nazioni, le attuali Repubblica Ceca e la Slovacchia: oggi l’anniversario e il ricordo, con l’attuale Presidente di Praga che all’epoca dei fatti era un giovane docente universitario e che soprattuto si era rifiutato di firmare un documento nel quale si sosteneva che i fatti del 21 agosto 1968 erano una “liberazione” e non un’invasione.

LA REPRESSIONE COMUNISTA

Questo era il comunismo, non solo stalinista, ma l’impianto stesso dell’URSS: l’ideologia prima della realtà, l’intento di coprire con le menzogne e se necessaria anche la violenza, quell’anelito di libertà che non solo i popoli cecoslovacchi dimostravano durante la presidenza Brezhnev, da molti (a torto) considerato un possibile cambio di marcia rispetto all’epoca di Stalin. 50 anni fa i carri armati invasero la Cecoslovacchia per dimostrare con la forza (e senza neanche lo sproposito di morti fatto solo 12 anni prima nella rivolta in Ungheria a Budapest) come non vi erano alternativi “riformiste” alla linea ufficiale (e unica) di Mosca. «La propaganda di Mosca insisteva sulla liberazione del Paese dai controrivoluzionari, la radio di Praga continuava a diffondere disperati messaggi nell’Europa libera esortando a non credere a quella versione palesemente falsa», riporta bene oggi l’Ansa, alla vigilia delle commemorazioni. Purtroppo il 24 agosto Dubcek e gli altri esponenti del governo di Praga venivano portati a Mosca e qui obbligati ad accettare la presenza delle truppe del Patto di Varsavia e a rinunciare al programma di riforme. Così si mise fine al sogno della Primavera di Praga, ma non il suo anelito di libertà: fu un altro tassello infatti, decisivo quanto utile, per scardinare alla lunga l’impianto monolitico di Mosca. Diede linfa vitale e culturale alla più efficace rivolta degli operai cattolici polacchi di Solidarnosc, negli Anni Settanta e Ottanta, fino alla definitiva caduta di quell’ideologia che in più di 70 anni fece milioni – lo ripetiamo, milioni – di morti.