Dopo otto anni di aiuti finanziari, realizzati in tre programmi di intervento, e otto anni di pesante austerity, ieri Atene è uscita dal più grande programma di salvataggio della storia europea, annunciato nell’aprile del 2010. “Questo risultato – ha dichiarato Mario Centeno, presidente del Fondo europeo salva-Stati (Esm) – è stato possibile grazie allo sforzo straordinario del popolo greco, alla buona cooperazione con l’attuale governo e al supporto dei partner europei attraverso prestiti e sollievo sul debito. È servito più tempo di quanto atteso, ma credo che ci siamo: l’economia greca è tornata a crescere, con bilancio statale e commerciale in surplus e una disoccupazione in costante calo”. In Grecia, però, nessuno ha festeggiato, perché le ferite da rimarginare, soprattutto a livello sociale, e i nodi da sciogliere sono ancora tanti e non facili. Senza dimenticare che nuove ombre si stanno allungando sul Mediterraneo e sull’Europa: se la crisi greca sembra uscita dalla sua fase più acuta, all’orizzonte si profilano i rischi legati alle tensioni sulla lira turca. Insomma, “rischiamo un pericoloso passaggio di testimone da Atene ad Ankara”, come dice Vittorio Da Rold, per diversi anni inviato del Sole 24 Ore proprio in Grecia e Turchia.



Partiamo dalla Grecia. Qual è il bilancio del maxi-salvataggio, avviato nel 2010 e ufficialmente concluso ieri?

In otto anni la Grecia ha ottenuto complessivamente 273 miliardi di euro di assistenza, di cui 240 dagli Stati membri. Una massa enorme di aiuti, serviti soprattutto per pagare le rate in scadenza del proprio debito più che per realizzare nuovi investimenti. Occorre tuttavia ricordare che oggi il debito greco è ancora pari al 170% del Pil e che il Prodotto interno lordo è nel frattempo crollato del 25%. La cura ha lasciato segni evidenti sul tessuto sociale del Paese: la disoccupazione è ancora su livelli elevati, restano molti problemi sui fronti della sanità e dell’assistenza, il rinnovo dei contratti nazionali è sostanzialmente bloccato. In più si è registrata una fuga di cervelli molto consistente: 500mila emigrati, pari al 5% della popolazione, in gran parte giovani e ben istruiti. Come ha detto il Governatore della Banca centrale ellenica, Yannis Stournaras, “la Grecia ha ancora una lunga strada da percorrere per correggere gli squilibri nella sua economia”.



Atene resta dunque sotto monitoraggio?

Sì, sono già stati fissati nuovi target da rispettare con nuove misure da adottare. Per esempio, il 1° gennaio 2019, per la quattordicesima volta dal 2010, verrà attuata una sforbiciata alle pensioni e dall’anno successivo Atene dovrà provvedere a un aumento delle tasse per poter avere ancora un avanzo primario al 3,5% fino al 2022 e al 2,2% fino al 2060. “Traguardi ambiziosi”, come dice il Fondo monetario internazionale.

Sono misure draconiane…

È una sorta di cintura che si stringe e si stringerà ancora per molto tempo. Sarà molto difficile centrare questi obiettivi per un Paese che non ha rendite petrolifere su cui contare.



Dopo questi otto anni di aiuti e di austerità come è cambiato l’atteggiamento dei greci verso l’Unione europea?

I greci sono cauti e delusi, perché l’aiuto finanziario, pur imponente, non ha loro evitato i grossi sacrifici che hanno dovuto sopportare e che ancora per un po’ dovranno continuare a fare. Atene ha superato le difficoltà, ma la Grecia nel frattempo non ha potuto beneficiare della ripresa che sta interessando l’Europa e non ha potuto trarre vantaggio dalle politiche espansive della Banca centrale europea. Lo ripeto, i prestiti sono serviti in massima parte a pagare i debiti. E poi ci sono ancora 450 riforme, da quella della pubblica amministrazione alle misure per contrastare l’evasione fiscale, che al momento sono ancora solo sulla carta, devono essere tradotte in pratica. Quindi, i greci hanno accettato la medicina amara, ma la cura ha lasciato aperte delle ferite. La Grecia sa di avere oggi uno scudo, ma questi anni di austerità hanno profondamente inciso sulla vita di molte famiglie, che fanno veramente fatica a tirare avanti.

Secondo la Commissione Ue la data del 20 agosto sarà ricordata perché i greci ora “potranno camminare sulle loro gambe”. È davvero così? Come sta oggi l’economia del Paese?

La Grecia, che nel 2017 ha realizzato una crescita del Pil pari all’1,4%, quest’anno dovrebbe crescere del 2% e nel 2019 del 2,3%. Ma questi andamenti positivi arrivano dopo otto anni di grave e profonda recessione. Il deficit di bilancio nel 2010 era del 15% e oggi Atene ha un avanzo dello 0,8%. Un numero che la dice lunga sui sacrifici enormi che il Paese ha affrontato in un lasso di tempo breve. Oggi i conti sono in equilibrio, ma restano problemi seri, a partire dalle sofferenze bancarie, che ammontano addirittura al 42% dei prestiti.

Se dal punto di vista finanziario si può dire che il salvataggio sia riuscito, pur avendo lasciato ferite sociali ancora da cicatrizzare, la crisi greca del 2010 ha segnato l’inizio delle tensioni tra i Paesi Ue e ha messo in evidenza per la prima volta i limiti della sua architettura istituzionale, cui occorrerà mettere mano per evitare altri casi simili. Quindi, dal punto di vista “politico”, che giudizio si può dare ex post sulla crisi greca?

Ci sono stati evidentemente errori e difficoltà: nel 2010, per esempio, non c’era ancora l’Esm, dunque i primi prestiti sono arrivati direttamente dai singoli Paesi. Si sono verificati anche gravi ritardi: otto anni fa, alla vigilia di un appuntamento elettorale interno, Angela Merkel non se la sentì di affrontare le elezioni aiutando la Grecia a uscire dalla sua crisi, ma se si fosse intervenuti subito, l’operazione avrebbe richiesto solo 30 miliardi, poi lievitati nel tempo fino a 110 miliardi. La Ue allora non era pronta e non aveva forse i mezzi appropriati per fronteggiare quella crisi.

Se la crisi greca è in via, lenta e difficile, di risoluzione, sul Mediterraneo si sta affacciando una nuova emergenza: il caso della Turchia. Nata come crisi valutaria, non si corre ora un rischio contagio verso altri Paesi?

La Banca dei regolamenti internazionali (Bri) ha calcolato che l’esposizione verso la Turchia delle banche internazionali è pari a 264 miliardi di dollari nel primo trimestre di quest’anno. Di questi, 82 miliardi sono riconducibili a banche spagnole, 38 a banche francesi, 17 a quelle tedesche e 16,9 miliardi a quelle italiane. Ecco spiegato il rischio contagio: in caso di crisi valutaria, gli asset turchi si svalutano e le banche sono costrette a ricapitalizzarsi.

La crisi greca e quella turca possono avere conseguenze anche sull’Italia?

L’Italia ha rapporti con entrambi i Paesi, soprattutto con la Turchia. Oggi nel Paese sono presenti 1.200 imprese, che hanno investito nei settori delle infrastrutture, nell’automotive, nella gomma e nell’industria finanziaria, e l’interscambio con Ankara ammonta a 20 miliardi di dollari. È nel nostro interesse che la Turchia si stabilizzi. Basti pensare al problema dei flussi migratori: a fronte di un impegno finanziario della Ue di 6 miliardi di euro, Erdogan ha assunto l’impegno di accogliere e assistere sul suo territorio 3,5 milioni di profughi siriani.

(Marco Biscella)

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