GREENWICH (Connecticut) — C’è un’America la cui faccia è tutta calma e serena, dove solo le piogge torrenziali e i fulmini disturbano. Ma solo all’esterno, perché all’interno tutto è climatizzato e la temperatura sempre uguale fa scordare la stagione. Forse fa scordare molto di più.

In questa America a soli 45 minuti di treno dalla frenetica Manhattan c’è chi arriva alla stazione con la sua Maserati ogni giorno, posteggia e poi dalla Stazione Centrale va direttamente al Club di Harvard per fare ginnastica, prima di affrontare il mondo degli affari di cui si occupa. La Porsche, parcheggiata nel secondo garage, è per altre occasioni o per il figlio quando viene in visita da Los Angeles, e la Bmw è per la signora, la quale insegna storia in una scuola esclusiva. Poi c’è il Suv della Mercedes per la neve. La loro villa è bianchissima con persiane blu, tutto intorno un giardino con un curatissimo bosco e un laghetto dove le tartarughe prendono il sole, incuranti dell’umidità e del caldo che da settimane non dà tregua.



È un’America che quando parla del suo presidente, senza necessariamente farne il nome, ammette che è un individuo impresentabile, ma — aggiunge — che fa le scelte giuste. Dove chi è repubblicano vota il partito e non la persona. Dove chi, invece, è democratico viene considerato da loro una specie di assurdo o pericoloso ignorante, e chi sceglie di rimanere indipendente (il terzo partito, che però in realtà è un non-partito, o una piccola e trasparente opposizione continua senza candidati) non può votare nelle primarie, ma viene con insistenza invitato a registrarsi in uno dei due partiti “seri”, perché vanno a caccia, dura, di voti quest’anno.



Questa è una sola faccia di una nazione divisa, ma è quella che potrebbe facilmente vincere, perché in questi aperti e spaziosi Stati (e sono tanti) dove nulla in apparenza cambia, si vuole esattamente quello: che non cambi nulla, che rimanga quella patria dei primi immigrati (ma che giammai si riconoscono come migranti).

Cito solo un esempio: ieri, nell’elegante palazzetto della Apple, chi ci serviva, dopo avergli chiesto se era italiano per una sua simpatica predisposizione ma anche per gioco, ci ha risposto orgogliosamente di non avere nel suo Dna null’altro che le origini dei primissimi approdati su queste sponde. Con disprezzo ha risposto che nessun altro sangue scorreva nelle sue vene se non quello dei primi pionieri. Voleva dirci che rappresentava la razza pura e incontaminata di questi Stati Uniti d’America? Temo di sì.



Nulla di tutto ciò succede per le strade o nei negozi di Manhattan, dove l’orgoglio si sfalda nelle sue molteplici etnie e dove tutto cambia senza mai fermarsi. Appaiono a vista d’occhio grattacieli che sembrano schiacciarsi uno contro l’altro, in una sterminata competizione per lo spazio sempre più stretto di questa città, verticale e vorticosa. Una piccola isola che non è mai stata calma né serena, e dove ora più che mai la tensione è palpabile, nell’aria soffocante di un’opprimente estate, in una stagione della sua democrazia nazionale in cui votare è più che mai cruciale.

Quest’America che si estende qua e là in altri Stati di questo vastissimo Paese, quella dal colore emblematico blu, sarà la perdente? Continuerà a credere di essere lei a rappresentare meglio il sentimento e la realtà statunitensi? Sempre ricchissima, come chi da questa città è arrivato alla Casa Bianca, subirà un’ulteriore umiliazione, ritrovando il simbolico rosso che come macchia d’olio ha rubato alla presidenza precedentemente idealizzata il potere, e ora si prepara a governare con maggior forza?

Impossibile prevederlo, lo dicono ormai tutti, qualunque sia il loro colore politico o etnico, perché l’incertezza non è mai stata così profonda e sofferta.