C’è chi vorrebbe che la Siria non risorgesse. Persino l’Onu ha diramato in memorandum interno che “sconsiglia” i paesi appartenenti a non elargire programmi di aiuti prima che sia avvenuta una transizione politica. Ma probabilmente le monache trappiste di Azeir (villaggio a metà strada fra Homs e Tartous), degli indirizzi dell’Onu non ne sanno nulla e comunque non hanno mai sposato l’idea di subordinare la vita concreta della gente alla politica.



Infatti le monache — lo hanno sottolineato varie volte in varie lettere aperte diffuse in momenti particolarmente cruciali per la Siria (l’ultima su Asia News) — hanno sempre sostenuto che la Comunità internazionale si dimentica molto spesso della “volontà di vita dei siriani” e del “quotidiano che faticosamente continua”. “I siriani — dice la superiora suor Marta in un reportage pubblicato sul blog Ora Pro Siria — non ricostruiscono solo per fatalismo” ma con la speranza che si possa riniziare e che la Siria torni forte ed in pace. D’altra parte le testimonianze che mi pervengono dalle mie numerose fonti in Siria documentano feste tradizionali che ricominciano, scuole e ospedali che riaprono, un fermento di vita e un desiderio di ricominciare, non la rassegnazione. 



Purtroppo nei report dei media, del cuore della gente, dei loro desideri e aspettative si parla poco o non si parla affatto. “Di questa guerra in Siria — dice suor Marta — si sono fatte conoscere approfonditamente tutte le atrocità, le violenze, le distruzioni, come è giusto che sia”. Ma, aggiunge: “Purtroppo, come abbiamo detto in altre occasioni, la verità viene presentata sempre con una faccia sola — cosa che non è mai vera — e guarda caso, la faccia presentata è quella che più conviene agli interessi esterni al paese, interessi che muovono ogni pedina, come su una tragica scacchiera”. 



E’ così allora che l’occidente non sente l’esigenza di mettere al primo posto la ricostruzione, la ricostruzione materiale ma anche la ricostruzione dell’umano di cui la gente ha più bisogno.

Perciò, in linea con questo giudizio, non meraviglia che la piccola comunità trappista di Azeir abbia iniziato un ambizioso progetto per la realizzazione di un impianto fotovoltaico di ben 1700 pannelli capace di erogare “40 kw per il pozzo e 40 Kw per lavoro e vita quotidiana di potenza installata”. Si tratta di un’iniziativa che tende a far fronte alla penuria di elettricità che in tempo di guerra, con le sue due o tre ore giornaliere di erogazione, incide pesantemente sulla vita e le attività del monastero (con annesso un laboratorio per la produzione di candele e biscotti).

Ma in questa vicenda la nota particolarmente positiva è che il numero dei pannelli donati dalla ditta internazionale benefattrice è risultato decisamente superiore alle necessità del monastero. Per cui — dice suor Marta — la comunità monastica “ha intenzione di fornire elettricità al pozzo del villaggio cristiano, il nostro villaggio; e di donare una parte significativa di pannelli all’ospedale di Talkalakh, il capoluogo della nostra regione nella provincia di Homs”. E aggiunge, spiegando perché la donazione sia così provvidenziale: “E’ una zona mista, con sunniti, alawiti e cristiani, e l’ospedale è quello dei poveri, serve proprio tutti (anche noi) in modo gratuito. Ma ha risentito delle restrizioni della guerra. Il fotovoltaico darebbe energia a una sala operatoria, al pronto soccorso e alle incubatrici, insomma una certa autonomia”.

Anche se probabilmente l’impegno finanziario che le suore devono ancora affrontare per il completamento dell’installazione è solo una parte infinitesimale di quando la Comunità internazionale ha speso per rifornire di bombe e di strumenti di morte i jihadisti, la spesa per la piccola comunità monastica è ingente. Ciò significa che sebbene parte della spesa sia stata comunque coperta dal vescovo di Aleppo George Abou Kazen, da varie organizzazioni umanitarie amiche e dal monastero stesso, è necessaria ancora metà della cifra impegnata per il trasporto e l’installazione, realizzati da tecnici e maestranze interamente siriani. In sostanza, è stato necessario che la fondazione “Nostra Signora della Pace” legata al monastero di Valserena aprisse una raccolta fondi per il completamento progetto. 

L’iniziativa delle trappiste non è un caso isolato: nel paese di cui le sorelle si sentono parte, è un brulicare di segnali di questo desiderio di rinascita che non vuole delegare la propria dignità al perfezionamento della politica. E’ un moltiplicarsi di iniziative: l’autostrada Daraa-Damasco è in via di rifacimento completo, e al Meeting di Rimini Radwan Khawatmi, membro della direzione dell’Aga Khan Museum ha mostrato i progetti di ricostruzione portati avanti per restaurare opere distrutte dai jihdisti, come l’antica cittadella di Aleppo e l’antica moschea Umayyhad, giurando che la Siria ritornerà più unita e forte di prima. 

Per citare alcune altre opere di ripristino completate, degno di nota è che l’80 per cento delle aziende alimentari di Damasco hanno ripreso la loro attività; che nel paese sono stati riaperti fino ad oggi 220 scuole e circa 90 centri medici; che sono stati riparati 296 chilometri di autostrade; che sono stati rimessi in funzione due centrali elettriche; che 72 impianti di approvvigionamento idrico e 88 sottostazioni elettriche sono di nuovo attive; che sono stati posati 222 chilometri di linee elettriche. 

Questa è la realtà, ovviamente c’è sempre qualcuno che si attarda a raccontare che il problema attuale è che il regime opprime e che il paese non riesce a ripartire. E’ proprio il modo di guardare stigmatizzato dalle trappiste.