Venerdì scorso si è concluso a Teheran il vertice trilaterale tra il il presidente russo Vladimir Putin, quello turco Tayyip Erdogan e il suo omologo iraniano Hassan Rouhani.  

Nel documento finale congiunto i tre paesi sponsor dei negoziati di pace nel “formato Astana” hanno convenuto sulla necessità che l’opposizione armata debba essere separata dai gruppi terroristici. Inoltre hanno ribadito “l’importanza della sovranità siriana sul suo territorio e la creazione di condizioni per garantire il ritorno dei rifugiati e degli sfollati”. 



Dalle dichiarazioni finali è emersa una sostanziale convergenza tra i leader convenuti sul fatto che è improponibile una politica della “terra bruciata” come soluzione per Idlib.

E’ da segnalare che nel corso della sua dichiarazione finale, Erdogan — dimenticando che è la Turchia uno dei principali attori del conflitto — non ha rinunciato ad addossare ogni responsabilità del conflitto ad Assad. “Non possiamo accettare di lasciare Idlib alla mercé del regime di Assad, i cui massacri contro la sua gente sono ancora presenti nella nostra mente”, ha detto (ma probabilmente il messaggio ha risposto anche all’esigenza di soddisfare l’opinione pubblica interna e alle milizie controllate, fortemente posizionate contro Assad).



Proseguendo — con chiaro riferimento all’offensiva in corso — il presidente turco ha criticato i metodi che “ignorano la sicurezza dei civili siriani” perché “non portano alcun beneficio”. Infine — forse dimenticando che l’offensiva turca su Afrin ha causato la morte di 3mila curdi — Erdogan ha detto chiaramente che “se per il bene degli interessi del regime l’uccisione di decine di migliaia di persone innocenti verrà ignorata, la Turchia non sarà in grado di continuare ad essere un partner o semplicemente uno spettatore in un tale gioco”. Terminando il suo intervento, si è detto però fiducioso che “la questione di Idlib possa essere risolta senza provocare nuove sofferenze, tensioni, difficoltà”, e insieme “essere fedele allo spirito di Astana”. 



In questo senso, è degno di nota quanto nelle ore precedenti al summit è stato diffuso dal giornale turco Daily Sabah. La testata è meglio conosciuta come portavoce dell’Akp — ovvero il partito al governo di Erdogan e quindi fortemente attendibile — ha reso pubblica una proposta che Erdogan avrebbe presentato durante l’incontro a Teheran. In sostanza, si tratta di un piano articolato nei seguenti 6 punti: 1) 12 gruppi, incluso il gruppo qaedista Hayat Tahrir al-Sham (Hts) dovranno lasciare Idlib; 2) questi gruppi utilizzeranno un passaggio sicuro per raggiungere una apposita zona cuscinetto, a condizione di consegnare preventivamente le armi ad una coalizione di gruppi controllata da Ankara; 3) i foreign fighters potranno tornare nei loro rispettivi paesi d’origine, se lo desiderano; 4) i gruppi che si oppongono all’evacuazione saranno fatti oggetto di operazioni antiterrorismo; 5) la Turchia, una volta risolto il problema dell’eccessiva radicalizzazione,  addestrerebbe una nuova forza alle proprie dipendenze (tratta dalle varie milizie sostenute) che avrebbe poi il compito, una volta formata, di mantenere la sicurezza nella provincia (sulla falsariga di quanto già sperimentato in Afrin); 6) il piano garantisce la sicurezza della base russa di Latakia e gli impianti industriali petroliferi in zona.

Complessivamente possiamo dire che sia nelle dichiarazioni finali, sia nel piano di Erdogan, si rileva una sostanziale convergenza sulla necessità di limitare le vittime civili, di trovare una soluzione che non sia solo militare ma anche negoziale (con partecipazione centrale della Turchia) e sul compito di “eliminare le organizzazioni terroristiche dalla provincia di Idlib, dove la loro presenza rappresenta una minaccia diretta per la sicurezza dei cittadini e dei residenti siriani dell’intera regione”. Nello stesso tempo, nel summit si è evidenziato che la Turchia non intende rinunciare alla sua presenza assicurata dalle milizie filo-turche (per le quali perciò intende riservare “un ruolo” nella futura Siria).

E’ degno di nota però che i combattimenti non sono cessati neanche nel corso dei colloqui. I caccia di Mosca hanno lanciato attacchi alla periferia delle città di Habit, Abidin, Kafrin e Tel Asas, nella campagna meridionale di Idlib. Ai raid aerei si è unito il fuoco di artiglieria effettuato dalle unità dell’esercito siriano di stanza a Camp Bardij a Hama. Gli attacchi si sono concentrati sulle periferie della città di Habit e del villaggio di Tel Asas raggiunti da 9 raid aerei e da 25 proiettili di artiglieria. Secondo fonti dei militanti sono state uccise 4 persone e ferite 7. Pesante anche il fuoco di controbatteria dei ribelli: una fonte locale ci ha comunicato che nella cittadina cristiana di Mahardeh (a nord di Hama) ha causato 9 morti civili tra cui 5 bambini e 20 feriti.

Probabilmente questa è stata la risposta alla richiesta di una tregua avanzata da Erdogan nel corso della riunione a Teheran. Chiarisce che pur cercando in tutti i modi di salvaguardare la vita dei civili non si intende dar fiato ai terroristi. Questo modo di procedere può sembrare eccessivo, persino crudele ai nostri occhi. Tuttavia, nessuno sembra chiedersi come mai la Comunità internazionale — che chiede la democrazia occidentale ad Assad — non senta allo stesso modo il bisogno di chiedere per Idlib un governo eletto liberamente dai cittadini. Inoltre, è da domandarsi perché a una giunta non eletta da nessuno, comprendente al Qaeda, viene concesso con assoluto arbitrio di decidere di vita, morte ed educazione. E’ procedendo in questo modo che probabilmente “per cessare le sofferenze del popolo siriano” non  rimarrà che l’unica soluzione possibile, il metter fine alla guerra.