La posizione di Donald Trump sull’annosa e complicata questione palestinese si può desumere da una dichiarazione di John Bolton, suo consulente per la sicurezza nazionale: la soluzione del problema tocca alle due parti in causa. In un suo recente intervento al King David Hotel di Gerusalemme, Bolton ha citato una frase di James Baker, segretario di Stato nell’amministrazione di George Bush senior:” Non possiamo volere la pace più di quanto lo vogliano le stesse parti coinvolte”. Questa frase, purtroppo ancora attuale dopo quasi trent’anni, sembra improntare la strategia di Trump. Lo dimostra la spiegazione che ha dato alla sua decisione di implementare la delibera del Congresso del 1995 sull’ambasciata a Gerusalemme: togliere l’ostacolo rappresentato da Gerusalemme dal tavolo delle trattative tra Israele e palestinesi.



Anche se questa decisione non pregiudica, almeno formalmente, la possibilità che Gerusalemme Est diventi capitale di un futuro Stato palestinese, rimane tuttavia un grosso favore fatto a Israele. Da qui la successiva affermazione di Trump sul caro prezzo che Israele dovrà pagare ai palestinesi. Il Jerusalem Post ha condotto un sondaggio sul suo sito per individuare quale potrebbe essere questo prezzo: l’ipotesi più gettonata è quella di concessioni territoriali in Cisgiordania, seguita a distanza dal riconoscimento di Gerusalemme Est come capitale di uno Stato palestinese. Decisamente meno votate l’ipotesi di riconoscere la “Nakba” (catastrofe), l’esodo dei palestinesi dopo il 1948, e il conseguente riconoscimento del “diritto al ritorno” per i profughi.



Il problema dei profughi palestinesi è il punto più critico e difficilmente risolvibile della questione. 

La costituzione dello Stato di Israele portò alla fuga di molti palestinesi dai loro luoghi di residenza, come avvenuto in molte parti d’Europa dopo la seconda guerra mondiale. Tutti questi profughi – tedeschi, polacchi, italiani ed altri – negli anni successivi si sono stabiliti ed integrati nei Paesi che li hanno accolti. Ciò non è avvenuto per i palestinesi, che da allora vivono, principalmente in campi profughi, nei Paesi limitrofi, Giordania, Libano, Siria. L’Onu ha creato, già nel 1949, un’agenzia per l’assistenza ai profughi palestinesi, Unrwa, non assorbita poi nell’Unhcr, l’agenzia che si occupa di tutti i profughi, esclusi appunto quelli palestinesi. L’Onu ha anche stabilito che la qualifica di profugo spetti anche ai discendenti di chi abbandonò la Palestina nel 1948. I profughi originari sono stimati in 700/800mila, quelli attualmente assistiti dall’Unrwa ammontano a circa 5 milioni.



Credo sia evidente come l’attuazione piena del “diritto al ritorno” sia concretamente inattuabile. Lo Stato di Israele conta circa 8,5 milioni di abitanti, la Cisgiordania e Gaza circa 4,5 milioni: il rientro di tutti i profughi significherebbe un aumento della popolazione totale del 40%. Una soluzione che renderebbe ingovernabili i territori sottoposti all’Autorità Palestinese, né Israele potrebbe mai accettare che la popolazione araba diventi maggioranza nel proprio territorio. L’aver lasciato incancrenire per settant’anni, per questioni politiche ed ideologiche, il problema dei profughi ha reso la questione pressoché irrisolvibile senza accordo e distribuzione dei costi tra tutte le parti coinvolte.

Trump è intervenuto, anche qui, a gamba tesa, riducendo il notevole contributo finanziario Usa all’Unrwa e minacciandone la totale sospensione. Trump ha invitato gli Stati arabi a contribuire più sostanzialmente al finanziamento dell’Agenzia: il problema è soprattutto degli arabi e, come nel caso della Nato, i “suoi” Stati Uniti sono stanchi di dover pagare per tutti. La mossa ha ulteriormente esasperato l’Autorità Palestinese, già sul piede di guerra dopo il trasferimento dell’ambasciata, ma i destinatari reali sono soprattutto Arabia Saudita e Stati del Golfo. Essendo costoro i principali alleati di Washington nella regione, siamo in presenza di una delle solite contraddizioni di Trump? Non è detto, alla luce di quanto scritto all’inizio.

Washington non ha preso esplicitamente posizione sullo spinoso problema del diritto al ritorno. L’Ambasciatrice all’Onu, Nikky Haley, ha affermato che la questione deve essere affrontata e lo sarà, a quanto pare, nel piano di pace per il Medio oriente che l’amministrazione Trump sta preparando. Aggiungendo che, comunque, l’Unrwa deve essere riformata perché gli Usa continuino a sostenerla. La soluzione definitiva al problema dei profughi non può essere certamente continuare ad assisterli per altri 70 anni, e minacciando il finanziamento dell’Unrwa, Trump toglie un altro ostacolo dal tavolo delle trattative. Infatti, qualunque sarà la soluzione concordata, l’Agenzia non avrà più ragione di esistere. Liberi gli Stati arabi di continuare a sovvenzionarla, ma a questo punto il problema palestinese rimarrà a carico loro e di Israele, gli Stati Uniti se ne tirano fuori.

Non so quanto una tale interpretazione sia plausibile, ma sarebbe coerente con il principio “America first”, inteso non come un ritiro dalla scena, ma come un rifiuto ad anteporre gli interessi di altri, anche alleati, a quelli degli Stati Uniti. “Non possiamo volere la pace, o la soluzione dei problemi, più di quanto lo vogliano le stesse parti coinvolte”. Chiudo con una frase di David Friedman, ambasciatore Usa in Israele: l’Amministrazione Trump “ha abbattuto la vacca sacra del pensiero cristallizzato che ha frenato ogni progresso sul fronte palestinese”. Non resta che augurarci che gli esiti siano positivi, per tutti.