Dal marzo 2015, ovvero da quando la coalizione di sigle ribelli Jaish al-Fath guidata da al Nusra (al Qaeda in Siria) ha preso il potere nella provincia di Idlib, laddove il pluralismo religioso e la tolleranza erano la norma, per la prima volta si è conosciuta l’intolleranza religiosa. Da allora la cronaca è costellata da rapimenti, detenzioni arbitrarie, dissacrazione di chiese, uccisione di cristiani.
Una donna cristiana raccontava così di quei giorni, nell’aprile 2015: “Li ho visti sabato mattina dalla mia veranda. Hanno demolito la croce della nostra chiesa e poi sono entrati in chiesa e hanno distrutto le cose. Hanno rapito padre Ibrahim Farah insieme a un giovane farmacista. Non abbiamo avuto altra scelta che accendere candele e pregare la Vergine Maria mentre abbracciavamo i nostri figli nelle nostre case”.
In sostanza, a centinaia di cristiani di Idlib è capitata la stessa sorte dei confratelli iracheni della piana di Nivive sfuggiti all’Isis: “sulle case dei cristiani fuggitivi veniva applicata la scritta ‘cristiani’. Ciò significava che da quel momento se i proprietari non ritornavano entro 10 giorni per pagare una commissione, la casa doveva essere confiscata dal gruppo” insieme a beni ed attività commerciali.
Ora i pochi cristiani rimasti sono presenti solo in alcuni villaggi nella provincia: sono in tutto 200 famiglie. La persecuzione che essi ancor oggi subiscono è stata recentemente ricordata dal vicario apostolico di Aleppo dei Latini, mons. Georges Abou Khazen su Asia News che ha auspicato che “nessuno, cristiano o musulmano, debba vivere nelle mani dei terroristi”.
Tuttavia l’occidente è sordo a questo genere di appelli perché considera l’attuale status di Idlib da preservare. Di conseguenza, supporta ancora la coalizione jihadista di Idlib dall’estero e le permette di continuare a combattere. La ragione di questo comportamento schizofrenico è che senza un’opposizione armata all’occidente sarebbe preclusa la partecipazione al comitato costituzionale che dovrà includere “50 persone del governo, dell’opposizione e della società civile”.
Se questa dinamica può sembrare ancora incomprensibile, è chiarificatore un documento stilato dal cosiddetto “gruppo dei sette” che supporta l’opposizione armata siriana (Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Germania, Arabia Saudita, Egitto e Giordania), reso pubblico dalla TV libanese al Muyadin. Il documento, consegnato al rappresentante delle Nazioni Unite Staffan De Mistura al termine di un incontro avvenuto il 14 settembre a Ginevra, detta come condizione principale per addivenire ad un accordo la rottura completa tra l’Iran e la Siria e la riscrittura di una costituzione che preveda l’esautorazione dei poteri del presidente della repubblica con il contemporaneo passaggio degli stessi ad un governo di transizione.
Il documento dice che se questa condizione non sarà rispettata, continuerà l’internazionalizzazione della crisi siriana, ovvero i sette faranno di tutto per preservare lo stato attuale. Ovvero che “nessun aiuto per la ricostruzione sarebbe concesso per le aree controllate dal governo siriano” e dovrà essere preservato lo ‘status quo’ attuale, ovvero “la presenza di aree fuori dal controllo dello stato siriano, descritte come “zone franche” (al Manar).
Evidentemente è un messaggio molto chiaro: i sette non vogliono la restituzione di Idlib al legittimo governo siriano. Ma questo non dipende da riserve di natura “umanitaria” (disastro umanitario o rischio di armi chimiche), bensì dall’accettazione da parte di Damasco di precise condizioni di resa, altrimenti — ricorda al Muyadin — come è stato fatto ripetutamente in precedenza “il governo siriano sarà sottoposto a continue pressioni” internazionali.
Quindi il percorso è ancora in salita. In tutto questo, esiste solo una variabile che potrebbe vanificare gli sforzi occidentali. E’ una figura molto ambigua ma ha ragione di pensare di sé stesso che è il vero “ago della bilancia” di questa situazione. Ovviamente stiamo parlando di Erdogan: se il presidente turco appoggerà il piano russo/iraniano — ovvero se troverà un compromesso win-win con gli alleati di Astana — il piano dei sette salterà totalmente senza alcuna possibilità di intervento perché il presidente turco è un alleato troppo importante nello scacchiere mediorientale.
Erdogan sa di essere il “golden share”; vedremo solo dopo il 17 settembre, quando si incontrerà con Putin a Sochi, se dall’incontro uscirà o meno una soluzione che eviti altre sofferenze al popolo siriano ed altri pasticci occidentali.