Da circa cinque giorni alcune zone della capitale libica sono teatro di gravi scontri tra milizie che, nonostante alcuni tentativi di tregua, non sembrano volersi arrestare. Ieri un colpo di mortaio ha raggiunto un albergo vicino alla nostra ambasciata. Regolamento di conti interno, come già accaduto altre volte nell’ultimo anno, o qualcosa di più serio che potrebbe mettere a rischio la tenuta del Governo di accordo nazionale (Gna) di Fayez al-Serraj, alleato storico dell’Italia? E quali potrebbero essere le opzioni del nostro governo?



Innanzitutto è necessario far luce sulle possibili cause di questa recrudescenza.

La tensione tra i vari gruppi presenti a Tripoli è addebitabile a diversi motivi. In primo luogo il calo dei flussi migratori provenienti dalle coste tripoline — che garantivano introiti ad alcuni gruppi presenti nell’area — ha tagliato una buona fetta della torta da cui mangiavano molte milizie, saziando i loro “appetiti economici”. Detta in altri termini, tenere a freno i gruppi armati con i proventi dei traffici illegali ora è molto più difficile e questo può costituire un rischio per la tenuta del governo a marchio Onu. Prova ne sia che, prima, la Settima brigata, una milizia di stanza nelle città di Tarhuna, a sud della capitale, si è mossa contro formazioni fedeli a Serraj accusandole di essere corrotte; poi, come riportato da alcune agenzie, Salah Badi, controversa figura dell’operazione Alba libica — che nel 2014 ha costretto il neo-eletto governo a rifugiare a Tobruk — ha diffuso un messaggio su Facebook dicendosi pronto ad entrare a Tripoli alla guida della brigata al Samoud. Come recita un vecchio detto popolare “la fame fa uscire il lupo dalla tana” e così è stato.



In secondo luogo, non va dimenticato che lo scorso luglio il ministro degli esteri francese Le Drian si è impegnato in un intenso tour libico per perorare la causa di Macron che vuole elezioni nel paese a dicembre. L’emissario francese ha incontrato gli esponenti libici presenti al vertice di Parigi del 29 maggio scorso: Haftar, uomo forte della Cirenaica, Serraj, al-Mechri, presidente del consiglio di Stato e Aguila Saleh, presidente del parlamento di Tobruk. L’agenda è stata allargata anche ad alcuni esponenti delle potenti milizie di Misurata, e probabilmente anche ad altri attori locali, che avevano pubblicamente condannato il vertice francese. Per rendere più “avvincente” la sua proposta l’Eliseo ha annunciato un contributo di un milione di dollari per l’organizzazione degli scrutini. Una cifra capace di convincere gli indecisi ma anche di aizzare gli appetiti dei vari gruppi di potere. E’ evidente che il caos a Tripoli non può che giovare alla Francia che sembra preferire un ovest destabilizzato ad una possibile “pax italiana”. 



Una posizione difficile per il nostro governo che fin dall’inizio ha mostrato una grande fiducia in Serraj e negli uomini a lui vicini. L’Italia ha però ancora delle carte da giocare sia a livello interno sia a livello internazionale.

Da un punto di vista interno è necessario sostenere le autorità di Tripoli (la cui tenuta è fondamentale per mantenere una posizione nel paese) e soprattutto lavorare con la comunità internazionale per un dialogo inclusivo capace di ricompattare quante più milizie possibili intorno a un progetto comune di stabilizzazione. La nostra conoscenza degli attori locali potrebbe essere utile per dare vita ad un accordo con i gruppi disposti al dialogo ed escludere, così, le istanze più estremiste. 

Sarà poi indispensabile allargare lo sguardo ad est anche verso Haftar. Si potrebbe eccepire che il generale della Cirenaica è storico alleato della Francia e difficilmente allenterà i legami con Parigi, specie in un momento così favorevole. Tuttavia la rinnovata partnership tra Roma e il Cairo, altro storico sponsor di Haftar, può essere un buon viatico. Qui l’Italia dovrebbe continuare a giocare la carta economica: oltre a Zhor, il megagiacimento offshore, l’Eni ha appena annunciato una nuova scoperta di gas nel deserto occidentale egiziano che potrebbe erogare fino a 700mila metri cubi di gas al giorno. Inoltre, il turismo italiano in Egitto ha registrato un +94% nel 2017, con un ulteriore incremento nel primo bimestre del 2018, tanto che la compagnia Air Cairo ha aperto nuove rotte con l’Italia. E’ evidente che gli interessi economici possono essere un’utile argomentazione anche in ambito politico. La sponda con l’Egitto, poi, è anche funzionale a intavolare un discorso con Putin, che sostiene e finanzia l’uomo forte della Cirenaica e ha legami consolidati con il presidente egiziano. 

Ci sarebbero poi gli Usa. La Libia non è certo in cima alle priorità dell’amministrazione Trump, ma il contrasto al terrorismo sì e la destabilizzazione della capitale libica potrebbe riaprire la costa ovest ai gruppi jihadisti che attendono “il loro momento” nel sud del paese. Non solo, una perdurante instabilità permetterebbe alle forze estremiste di “irradiarsi” anche nei paesi vicini. Un buon argomento per avere anche Washington dalla nostra parte.