Il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, ha definito non politico, bensì pastorale, l’accordo firmato nei giorni scorsi con la Cina, con l’obiettivo di “aiutare le Chiese locali affinché godano condizioni di maggiore libertà, autonomia e organizzazione” per poter svolgere la propria missione di annunciare il Vangelo. Non vi sono dubbi che questa sia la posizione della Santa Sede, il problema è se si possa dire altrettanto per Pechino, la cui “pastorale” è che le religioni attuino “i valori fondamentali del socialismo”. E’ quanto risulta dalla Nuova Normativa sugli affari religiosi, entrata in vigore il primo febbraio di quest’anno e che restringe ancor di più la libertà religiosa in Cina.
Per il governo cinese l’accordo rappresenta solo un importante fatto politico, sia sul piano interno che a livello internazionale. In concomitanza con la firma dell’accordo, sono stati riaccolti nella comunione con Roma sette vescovi nominati dal regime e finora non riconosciuti dalla Santa Sede; a tre di essi è stata anche tolta la scomunica. Inoltre, due vescovi della Chiesa “sotterranea” hanno accettato con dolore, come riporta America Magazine, l’organo dei Gesuiti negli Stati Uniti, di dimettersi dalla guida delle loro diocesi cedendo il loro ruolo a due dei sette menzionati; per un altro di questi è stata creata una nuova diocesi. Questi atti, che nell’ottica vaticana hanno lo scopo di avviare un processo di riunificazione della Chiesa “sotterranea”, fedele a Roma, e di quella “patriottica”, controllata dal governo, è pensabile assumano un significato diverso, solo politico, per Pechino.
Da diversi indizi, l’accordo non sembra essere gradito a una parte del Partito Comunista cinese, che lo ritiene probabilmente un arretramento nella linea dura verso le religioni, in contrasto con la citata nuova legge e i ripetuti fatti di violenza contro credenti e luoghi di culto cristiani e di altre religioni. Tuttavia, l’accordo ha senz’altro l’approvazione di Xi Jinping, che lo ritiene congruente con il suo progetto di “cinesizzazione” delle comunità religiose. Nel ricongiungimento dei sette vescovi con Roma, il presidente cinese non vede nessun aspetto “comunionale”: non accettando la separazione tra politica e religione, ma propugnando la subordinazione della seconda alla prima, vi vede solo il riconoscimento dell’operato del suo governo. I cattolici sono solo l’1% della popolazione cinese, ma la Chiesa cattolica ha una grande importanza a livello globale e quindi questo può essere considerato un successo, e non solo sul fronte interno.
Infatti, il Vaticano è uno Stato e l’accordo è stato firmato tra rappresentanti dei due ministeri degli Esteri, quindi un trattato di diritto internazionale, difficilmente ripetibile con altre religioni, perché comporterebbe trattative dirette con Chiese e non con Stati. Importanti, perciò, anche i risvolti internazionali, apparsi immediatamente evidenti nelle precisazioni del Vaticano che l’accordo non riguarda l’instaurazione di rapporti diplomatici con la Cina. Il Vaticano è uno degli Stati, ormai non numerosi, che riconoscono e intrattengono rapporti diplomatici con Taiwan, il cui governo ha subito dichiarato immutati i rapporti con Roma, esternando le sue preoccupazioni in merito.
Come è noto, i contenuti dell’accordo sono secretati e quindi è impossibile una loro valutazione, ma si può pensare che questo provvisorio e iniziale accordo, come è stato definito dal Vaticano, rappresenti per Pechino un altro braccio della sua strategia di espansione pacifica. Data la presenza globale della Chiesa cattolica, l’accordo con il Vaticano si affiancherebbe a quelle altre iniziative globali come la “One Belt One Road Initiative” e la “Global Energy Interconnection Initiative”, di cui si è parlato in un precedente articolo su queste pagine. Infrastrutture, energia, religione: un trinomio senza dubbio importante per chi vuol diventare una potenza globale — e dominante.
Per la Santa Sede rimangono aperti molti problemi da risolvere, il principale dei quali sono le modalità con cui verranno nominati i vescovi cinesi dopo l’accordo; sulla base delle informazioni che circolano, il regime non sembra disposto a fare grandi passi indietro a questo proposito. Rimane poi il dubbio che Pechino interpreti l’accordo solo a suo vantaggio, rischio dimostrato da quanto avvenuto con precedenti trattati. Forse per questo il Vaticano insiste sul termine “provvisorio”, da intendersi come “periodo di prova”, e ciò giustificherebbe anche il riserbo sui contenuti.