Ieri sera le milizie libiche hanno raggiunto un accordo al tavolo convocato dall’Onu. Un risultato visto con favore dal governo italiano, che conferma di lavorare ad una conferenza internazionale sulla Libia prevista a novembre. “La situazione del Paese è molto confusa, la Libia sembra ormai dirigersi verso uno scenario alla somala — osserva Paolo Quercia, analista di politica estera, direttore del Cenass —. C’è da dire però che l’Italia finora non ha messo in campo tutte le risorse economiche e politiche di cui dispone e questo è il nostro principale errore”.
Sono fondate le critiche espresse da Salvini a Macron? E’ responsabilità dell’Eliseo quando sta accadendo in Libia?
Il governo italiano è stato piuttosto compatto ad accusare più o meno apertamente la Francia di questo rinnovato scoppio di ostilità che potrebbe avere come obiettivo quello di fare saltare al-Serraj. Questa volta i principali ministri del governo interessati dal dossier Libia non appaiono divisi come al solito.
E secondo lei questo cosa significa?
Segno che effettivamente potrebbero esserci precise notizie di un’operazione progettata da fuori, con qualche mano straniera che ha spinto al tradimento una delle tante “brigate” che garantivano ad al-Serraj il controllo del territorio. Difficile però che sia stata Parigi in prima persona. Potrebbe averlo fatto attraverso qualche suo alleato nella scacchiera libica.
L’aumento del caos potrebbe portare ad una ripresa del flusso migratorio verso l’Italia fuori da ogni controllo?
Non credo. Troppo caos non è buono per i flussi migratori. Il traffico dei migranti prolifera con la stabilità e non con il conflitto. I meccanismi economici che vi sono dietro sono estremamente profittevoli, al punto che il traffico è un fattore di stabilizzazione. Probabilmente i proventi criminali dei traffici hanno avuto un ruolo non secondario nel mantenere dal 2014 ad oggi una calma relativa in Tripolitania, assieme ai dividendi del petrolio.
Dunque la chiave di lettura di questa crisi secondo lei non è quella migratoria.
No, però è probabile che la qualità dei flussi futuri peggiorerà ulteriormente con l’evasione dei detenuti ed il rischio di un nuovo caos generalizzato nel Paese.
L’Italia ha scelto una politica opposta a quella francese: Roma intende pacificare il paese e poi, semmai, votare. Parigi vuole votare per pacificare il paese. Che cosa è meglio?
La via italiana sulla Libia di questo governo e di quello precedente appare ispirata in una certa misura alla politica democristiana, ed in questo c’è una certa saggezza. Però paghiamo un prezzo: non abbiamo la forza di fare una missione militare vera, vogliamo tutelare troppi interessi anche in conflitto tra loro, non contiamo nulla in Europa, siamo troppo lenti a reagire alle iniziative dei tanti attori antagonisti, abbiamo lasciato troppi spazi di manovra alla Francia, incluso il monopolio sulla figura di Haftar.
E Haftar è legato all’Egitto.
Infatti probabilmente abbiamo pagato anche il prezzo del black-out dei rapporti con il Cairo che c’è stato dopo il caso Regeni. Però, diciamocela tutta. Se quella in Libia è il massimo di una politica africana che riusciamo ad esprimere, parliamo di poca cosa rispetto al peso che è in grado di mettere in gioco la Francia. Basti pensare ai migliaia di soldati che combattono in Mali, Niger, Chad una guerra sporca anti-terrorismo ed in sostegno dei governi di quei Paesi.
Noi invece?
Noi procediamo con iniziative di singoli ministeri spesso in tensione o in contrapposizione tra loro. Insomma, non abbiamo fatto male in Libia dopo la débâcle del 2011. Ma il peso dell’azione del nostro Paese potrebbe crescere tantissimo.
Insomma se siamo inefficaci è colpa nostra.
Direi di sì. Non che non siamo capaci. Ma se non mettiamo in gioco le risorse economiche necessarie non prendiamo sul serio la sfida della ricostruzione della Libia. E gli altri Paesi non prendono sul serio noi.
Dovremmo cambiare cavallo, abbandonando Serraj per Haftar?
No, così facendo potremmo commettere un errore speculare. Certo che bisogna lavorare con Haftar, ma senza abbandonare Serraj. La Libia è troppo frammentata e divisa in ambiti territoriali per pensare che un solo uomo forte possa governarla. Ce l’avevamo e abbiamo pensato bene di buttarlo giù. Ora bisogna lavorare con le tante Libie dell’Est, dell’Ovest e del Sud, secolari e islamiste, rivoluzionarie e nostalgiche del rais.
Nel 2016, in una intervista al Corriere, Scaroni aveva detto che la Libia è un prodotto storico recente, impossibile da ricostruire. Meglio accontentarsi di Libie regionali, a cominciare dalla Tripolitania e dalla Cirenaica.
Mi sembra una pessima idea. Sono le due regioni storiche delle Libia. Ma non è che se prendi uno Stato fallito e lo dividi in due fai due Stati funzionanti. Fai due Stati falliti, probabilmente in guerra tra loro. In Libia siamo ormai alla fase delle città-Stato o delle milizie territorializzate, forme di controllo del territorio alternative allo Stato non dissimili dalle realtà che sono emerse anche dalla guerra civile in Siria ed in Iraq. Poi proprio noi italiani che abbiamo creato la Libia unendo la Tripolitania e la Cirenaica dovremmo essere i più conservatori da questo punto di vista.
L’Italia promuove una conferenza internazionale sulla Libia: è la via giusta?
La conferenza italiana dell’autunno sulla Libia è un passaggio importante in quanto potrebbero esservi le prime prove di dialogo tra Washington e Mosca sul futuro della Libia e magari sulla stabilità nel Mediterraneo centrale. Sarebbe un bel risultato se riuscissimo a trovare la formula affinché la linea italiana sulla Libia abbia il consenso di Washington e Mosca. Queste sono le operazioni diplomatiche che ci riescono bene. Certo, anche questo non basta.
Nel senso?
Le conferenze diplomatiche durano un paio di giorni, mentre la politica estera si fa poi sul terreno tutti i giorni dell’anno, con risorse, uomini, fatica, sudore e a volte anche sangue. Dobbiamo avere la coerenza di tarare mezzi ed ambizioni, cosa che in passato non abbiamo sempre fatto.
(Federico Ferraù)