Ieri mattina l’artiglieria siriana e l’aviazione russa hanno fatto partire la campagna militare preparatoria all’offensiva finale per la liberazione della provincia di Idlib, ovvero sulla città che lo stesso responsabile Usa per il Medio oriente Brett McGurk ha definito come “il più grande porto sicuro di al Qaeda dal 9/11, legato direttamente a Ayman al Zawahiri”.



E’ importante chiarire — a differenza di quanto passa costantemente in queste ore sugli schermi delle nostre Tv nazionali — che questa prima fase della campagna militare non è indirizzata su Idlib — la città maggiormente popolata — ma su tutt’altra zona.

Precisamente, gli attacchi dell’Aeronautica russa iniziati ieri mattina hanno preso di mira le posizioni difensive del gruppo terroristico Hayat Tahrir al-Sham (ex Jabhat al-Nusra, il ramo siriano di al-Qaeda) e il Turkistan Islamic Party (Tip) situate sulle montagne a nord della provincia di Latakia e la piana di Gaab, intorno alla città di Jisr al-Shughour (50 km da Idlib): in particolare, sono stati colpiti obiettivi militari identificati nelle città di Mahambel, Basnqoul, Zayzooun, Ziyarah, Jadariya, Kafrdeen, Al-Sahn, Saraseef, insieme ad altri obiettivi situati sempre nella regione occidentale di Idlib e nella provincia settentrionale di Hama. 



Ne consegue che l’offensiva in corso non ha finora colpito il capoluogo di provincia, Idlib. Ciò era ampiamente previsto: la Turchia prima che l’operazione iniziasse ha preteso ed ha avuto ampia assicurazione dalla Russia che la città di Idlib non sarebbe stata toccata. 

Ciò non è insolito, giacché ciò che si prefigge questa prima fase dell’offensiva è essenzialmente ripristinare la sicurezza della base russa di Hmeimim, a Sud-est di Latakia, ovvero la riconquista di una zona “cuscinetto” intorno alle zone costiere: ciò avrà come effetto di interrompere lo stillicidio di attacchi nemici in atto contro le postazioni governative (ma anche la stessa base russa riceve attacchi di droni).



Quindi, l’offensiva si è resa necessaria non tanto per sopprimere generici e non meglio identificati “ribelli” moderati, ma per la presenza — tra le fila delle varie milizie che amministrano la provincia — del gruppo terroristico Tharir al Sham (Hts), che l’hanno trasformata in un emirato islamico, impongono in queste ore il reclutamento forzato ai civili e rifiutano ogni tipo di negoziato.

Tuttavia — pur essendo Hts il maggior ostacolo per la fine della guerra — l’attacco per la liberazione di Idlib non è certo che avvenga: almeno non in questo momento o con le modalità devastanti preannunciate dai media. Ciò su cui si confida invece è l’opera di persuasione e sgretolamento che sta svolgendo la Turchia sui militanti. Si spera cioè che le forze di al Qaeda si dissolvano e che transitino in altre formazioni sotto il controllo turco o che si riesca ad eliminarle. 

Ed in verità in questa direzione sembra che si registrino i primi successi: la settimana scorsa si sono registrate 800 defezioni tra le fila di Hts. Tali defezioni sono incentivate anche da crescenti problemi di approvvigionamento che le milizie qaediste attualmente lamentano in misura sempre più crescente e incisiva.

In questo senso, è degno di nota che nei giorni scorsi siano avvenuti molti assassini di comandanti di Hts in Idlib, ad opera di individui sconosciuti. E’ plausibile che ad eseguirli siano stati uomini sotto copertura dei servizi segreti siriani e turchi. E’ consequenziale che ciò che ci si aspetta è che l’onda di questi avvenimenti porti a far implodere Hts dall’interno. Perciò, quando e se ci sarà l’offensiva, questa sarà solo la “spallata” finale: se ciò avverrà gli effetti distruttivi saranno minimizzati.

Va da sé che se gli avvenimenti si allineassero in questo senso, sarebbero facilitati anche i negoziati: le forze filo-turche, sebbene per buona parte siano milizie salafite radicali, sono però più controllabili e inclini al compromesso.

Questo è quanto. Ma c’è chi rema contro, si specula sui timori della tragedia umanitaria per trovare in essa il “casus belli” che inneschi un intervento occidentale utile solo a rimettere indietro le lancette dell’orologio e prolungare la guerra rivolgendola a proprio favore.

In una parola la piega degli eventi non piace a Washington e perciò la minaccia di un’escalation è tuttora fortissima: a largo della Siria è schierata una squadra navale statunitense armata di più di 300 missili Tomahawk che aspetta solo un pretesto per colpire l’esercito siriano. A contrapporsi, è schierata una squadra navale russa, formata da 25 navi, che fino all’8 settembre condurrà una esercitazione per tenere praticamente chiuso lo spazio aereo, a difesa della Siria meridionale. 

Quindi, l’inizio dell’offensiva — propedeutica alla liberazione dell’ultima provincia siriana in mano ai jihadisti — avviene in un clima arroventato: da una parte i supporter della cosiddetta “primavera siriana” (trasformata in un inverno) e dall’altra la Russia, l’Iran e la Siria.

Perciò, ridimensionando: a fronte dei pericoli reali che esistono in ogni azione militare in zone densamente popolate, si nota che i paesi occidentali si stanno muovendo per avvantaggiare le milizie jihadiste. Cioè fanno di tutto — allearsi anche con il diavolo — pur di scalzare Assad che gravita nell’asse russo-iraniano.  

In questo solco, la causa umanitaria è invocata solo a pretesto: dovrebbe essere sintomatico che coloro che oggi si dicono “inquieti” per la minaccia di un disastro umanitario, siano gli stessi che hanno rifornito di armi micidiali i jihadisti, gli stessi che li hanno addestrati ed hanno facilitato il loro afflusso e la loro ascesa.

Cosa c’è da attendersi ora? Lo sapremo non prima di venerdì, giorno in cui i presidenti di Russia, Turchia e Iran si incontreranno a Teheran per colloqui trilaterali, che si concentreranno su Idlib.