Ancora un attacco a una struttura turistica keniota, nella capitale Nairobi, immediatamente rivendicato dai terroristi islamici somali di al Shabaab. 14 le persone rimaste uccise nell’attentato, almeno 30 i feriti a causa dell’esplosione; alcuni terroristi sono poi entrati nell’hotel Dusit D2, in una zona elegante della città, dove hanno preso degli ostaggi. Ci sono stati scontri a fuoco e al momento di scrivere queste righe la situazione è ancora caotica. Abbiamo chiesto a Stefano Piazza, esperto di terrorismo internazionale, di fare il punto su una regione africana devastata ormai da decenni da continui attentati.



L’attacco a Nairobi è stato rivendicato dalla formazione somala legata ad al Qaeda, al Shabaab. Come mai questi terroristi continuano a espatriare in Kenya? Quale è la loro strategia?

La loro unica strategia è portare instabilità in tutta la regione, che comprende Somalia e Kenya. Intanto la frontiera fra i due paesi è estremamente permeabile, per cui possono entrare e fuggire senza grandi problemi, e poi vanno dove rischiano di meno. In Somalia gran parte del territorio è stato sgombrato dai terroristi, in Kenya invece godono di complicità e coperture che gli permettono di portare disastri.

Ancora una volta hanno colpito una struttura turistica.

Naturalmente. Il turismo è la maggior fonte di introito economico per il Kenya, andando a colpire strutture turistiche possono mettere in ginocchio il paese, esattamente come succede in Egitto.

Ci sono ancora forze americane impegnate in Somalia in modo consistente?

E’ una presenza che certamente non conta decine di migliaia di soldati, ma è una presenza attrezzata e mirata, che interviene ad esempio con i droni, quando può. Non dimentichiamo la vastità delle aree dove si nascondono i terroristi e la difficoltà di colpirli.

Ha parlato di complicità in Kenya: intende da parte del governo, dei funzionari dello Stato?

Gli islamisti godono di complicità importanti legate al banditismo, sono terroristi di matrice islamista ma fondamentalmente banditi. Le complicità sono a vari livelli, si inizia dai villaggi e si arriva alle città e alle strutture dello Stato. Sappiamo che giro di guadagni economici hanno le personalità e i funzionari che lavorano in questi paesi, sotto il ricatto o con le minacce chiudono più di un occhio, questo è risaputo.

Il fenomeno piratesco al largo delle coste somale è ancora effettivo?

La pirateria su larga scala come è stato per molti anni ha avuto un freno, ma ci sono ancora degli attacchi a navi. Recentemente è stata attaccata una nave su cui lavorava personale svizzero. La pirateria esiste ancora, purtroppo.

Si dice che molti miliziani dell’Isis dalla Siria e dall’Iraq siano giunti in Somalia, è così?

Quella zona per i terroristi islamici è una zona perfetta, offre grandi spazi, complicità e coperture e dunque è assai probabile che sia così. D’altro canto quel che resta del califfato islamico ha dichiarato chiaramente che vuole ricostruire lo stato islamico proprio qui o in estremo oriente, in Indonesia.

Della volontaria italiana rapita in Kenya ormai due mesi fa non si sa più niente…

Questo è il dramma: in quelle aeree le cose cominciano magari come attacchi terroristici, poi le persone rapite vengono vendute ai predoni, non si sa mai dov’è il confine tra i predoni e i terroristi.

I paesi occidentali hanno la possibilità di intervenire per risolvere una volta per tutte questo quadro?

E’ impensabile, assolutamente impensabile. Non dimentichiamo cos’è accaduto quando gli americani hanno provato a intervenire con la forza in Somalia e anche i nostri soldati. Sono ancora disponibili le immagini di soldati legati ai carri e trascinati per le strade fino a morire. Sono luoghi, questi, dove gli unici che possono intervenire sono gli abitanti e i governi, noi possiamo aiutarli, ma non possiamo intervenire.