Sono passati 50 anni dalla Primavera di Praga ed è passata la stessa metà secolo dal gesto anti-dittatura tra i più noti del Novecento: lo studente cecoslovacco Jan Palach, in nome della libertà e contro l’occupazione sovietica, si diede fuoco nella piazza centrale di Praga il 16 gennaio 1969. Aveva solo 21 anni e protestava da giorni contro la censura e l’occupazione – giunta qualche mese prima con anche i carroarmati mandati da Mosca – della dittatura comunista russa: la propaganda di Mosca insisteva sulla liberazione del Paese dai controrivoluzionari, la radio di Praga continuava a diffondere invece disperati messaggi nell’Europa libera (mai accolti) esortando a non credere a quella versione palesemente falsa. Jan Palach decise dunque il “martirio” disperato della “torcia umana” per protestare contro la censura di una libertà che il suo popolo stava subendo da troppo tempo: nel tragitto verso il suicidio, imbucò tre lettere, comprò due secchi di plastica e li riempì di benzina nei pressi della stazione di Praga Centrale.
L’ULTIMA LETTERA DI JAN PALACH
La scena, a ripensarla ancora oggi, fu tremenda e racconta forse più di tutto quel senso di insofferenza all’oppressione politica, sociale, economica, religiosa, ma soprattutto umana dell’Unione Sovietica: «saltò un parapetto e si mise a correre in fiamme verso il centro della piazza. Venne urtato da un tram in corsa e poco dopo cadde a terra», racconta bene il Post nel focus dedicato ai cinquanta anni dal sacrificio umano di Jan Palach. La repressione “gentile” di Mosca spense la Primavera di Praga ma non l’anelito di libertà che Jan Palach, Vaclav Havel (con il Movimento Charta 77) e tanti altri mostrarono in quegli anni: l’ideologia prima della realtà, l’intento di coprire con le menzogne e se necessaria anche la violenza, quell’anelito di libertà, questo era il comunismo sovietico (non solo quello stalinista). Ma l’esperienza della Primavera di Praga rese quella dittatura disumana – assieme all’Ungheria 12 anni prima e alla Polonia con Solidarnosc qualche anno più tardi – finalmente più “fallibile” e soprattutto “battibile”. Il 25 gennaio ai funerali di Jan Palach parteciparono seicentomila persone con una processione lungo tutte le principali vie di Praga: nella lettera che aveva scritto e tenuto nello zaino prima del “martirio”, il giovane studente universitario ceco scriveva «poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Dato che ho avuto l’onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana. Noi vogliamo l’abolizione della censura e la proibizione di “Zpravy”. Se le nostre richieste non saranno esaudite entro cinque giorni e se il nostro popolo non darà un sostegno sufficiente a quelle richieste, con uno sciopero generale e illimitato, il 21 gennaio una nuova torcia s’infiammerà». Una libertà che sorse anche da quella “fiamma” accesa dal sacrificio del giovane Jan Palach.