L’Ucraina sta per affrontare le elezioni presidenziali, previste per il prossimo 31 marzo e a cui seguiranno entro l’anno quelle per il Parlamento, la Rada, in una situazione molto difficile per il Paese. Dopo una guerra interna che ha causato più di 10mila morti e un milione e mezzo di sfollati, il governo di Kiev ha perso il controllo della parte orientale, dove sono state autoproclamate le repubbliche di Donetsk e di Lugansk. Qui, lo scorso novembre i separatisti russofoni hanno tenuto elezioni presidenziali ritenute illegittime dall’Ucraina e non riconosciute internazionalmente. La Crimea è stata annessa dalla Russia, che ha poi provocato un grave incidente nel Mar di Azov, con l’attacco a tre navi militari ucraine e l’imprigionamento di membri degli equipaggi. Dopo l’incidente, il presidente Petro Poroshenko ha ottenuto dalla Verkhovna Rada la proclamazione della legge marziale, sia pure ridotta a 30 giorni e solo in dieci distretti confinanti con la Russia.



La decisione è stata vista dagli oppositori del presidente uscente come un tentativo di rafforzare la propria posizione personale, particolarmente debole in questo momento. I sondaggi lo danno piuttosto indietro nella corsa elettorale, superato di gran lunga dalla favorita Yulia Timoshenko, protagonista della “rivoluzione arancione” del 2004, già primo ministro e candidata alle precedenti elezioni presidenziali del 2010 e 2014. Su Poroshenko pesano la non facile situazione economica e, soprattutto, la persistente diffusa corruzione, che si teme possa influenzare anche queste elezioni. Per intanto, l’Ocse ha deciso di inviare 850 osservatori per verificare la correttezza del voto.



Accanto alle divisioni politiche, vi sono quelle etniche, principalmente con i russofoni, la cui presenza non è limitata alle province separatiste del Donbass. Il mancato riconoscimento ufficiale del russo, lingua parlata da una forte minoranza anche nel sud, risulta particolarmente divisivo. Tuttavia, il campo in cui le divisioni stanno diventando particolarmente preoccupanti è quello religioso.

Più del 70% degli ucraini si dichiara cristiano ortodosso, ma i fedeli si sono ritrovati negli ultimi decenni divisi tra tre diverse Chiese: la maggioritaria, da più di tre secoli sotto la giurisdizione del Patriarcato di Mosca, sia pure con una certa autonomia, una dichiaratasi indipendente dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica e una terza, la più piccola, che si rifà a una dichiarazione di indipendenza avvenuta negli anni Venti, in funzione antisovietica. Queste due ultime erano state scomunicate dal Patriarcato di Mosca e non riconosciute dalle altre Chiese ortodosse.



Nello scorso dicembre, il Patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo, ha concesso l’autocefalia, cioè l’indipendenza, alla Chiesa ucraina, accettata dalle due Chiese minoritarie, che sono state riconosciute e unificate nella Chiesa Ortodossa Ucraina, definita nel tomos, il decreto di Bartolomeo, Santissima Chiesa dell’Ucraina. L’autocefalia della Chiesa ucraina non è stata riconosciuta dal Patriarcato di Mosca, né dalla Chiesa ucraina che ne riconosce l’autorità, e ciò fa prevedere lo scatenarsi di conflitti tra le due Chiese, anche per il possesso di vari luoghi di culto storici. Per il momento, alla Chiesa ortodossa collegata a Mosca rispondono 12mila parrocchie, mentre alla nuova Chiesa autocefala se ne attribuiscono 7mila, ma le tensioni con la Russia, all’esterno, e con i russofoni, all’interno, possono rendere non facile il passaggio dei fedeli, e delle parrocchie, da una Chiesa all’altra.

La decisione di Bartolomeo ha prodotto una furiosa reazione del Patriarcato moscovita, che ha interrotto la comunione con Costantinopoli: non si è ancora allo scisma, né è la prima volta che ciò succede, ma la situazione non si presenta facile per l’intero mondo ortodosso. La Chiesa autocefala ucraina, che si aggiunge come quindicesima, è stata scomunicata da quella russa, ma deve essere riconosciuta anche dalle altre 13 Chiese autocefale. Da quanto trapela, alcune di queste potrebbero avere problemi, come quella serba particolarmente legata alla Russia, ma per ora non vi sono pronunciamenti ufficiali.

Poroshenko ha cavalcato fin dall’inizio la vicenda e alla cerimonia di intronizzazione del nuovo patriarca, un giovane vescovo della Chiesa di Kiev, quella autoproclamatasi autocefala nel 1991, si è presentato come una specie di “garante” della questione. Una questione che è, come si vede, non solo religiosa, ma squisitamente politica, come è peraltro tradizione, direi purtroppo, nel mondo ortodosso, dove l’identificazione della autocefalia con una particolare nazionalità finisce spesso per affiancare le gerarchie religiose ai poteri politici. E’ quello, comunque, che sta avvenendo attualmente anche in Russia.

Dall’esterno, ci si potrebbe chiedere: se la nazionalità è così importante per una questione essenziale ed esistenziale come l’appartenenza religiosa, perché tante difficoltà quando coinvolti sono gli Stati? Perché gli ucraini possono lasciare la Chiesa unita a Mosca, ma i russi del Donbass non possono unirsi, se lo vogliono, alla Russia? Evitando così sanguinose guerre.