In una recente intervista Toni Negri ha sostenuto che i gilet gialli non siano né destra, né sinistra, e che infine rappresentino la rivolta contro il sovrano, di marca tipicamente francese. Macron ha distrutto i corpi intermedi e la società, sotto pressione (fisco e cosiddetta “giustizia sociale”), reagisce molecolarmente e violentemente. I 5 Stelle, per Negri, sarebbero invece “un derivato di comportamenti moltitudinari”. La prima analisi è parzialmente corretta, la seconda, relativa ai 5 Stelle, è sbagliata.



I gilet gialli sono una rivolta del popolo contro il re, tendenza tipicamente francese. Ma l’articolazione di questa rivolta – una sorta di jacquerie urbana post-moderna – è tutta all’interno della dimensione moltitudinaria.

Il 900 è finito. Ma ancora molti analisti si attardano su categorie novecentesche per tentare di afferrare l’essenza e l’orientamento di fondo dei gilet gialli. Il “moltitudinarismo” è, invece, lo scardinamento del combinato disposto politica-progetto. Dunque, esso non sceglie né crea programmi per cambiare la società o le istituzioni. Siamo nell’orizzonte del Politico, non della Politica. Il Politico è legato a doppio filo allo stato d’eccezione di schmittiana memoria. E il sovrano è chiamato a decidere sullo/nello stato d’eccezione. Stato d’eccezione che può assumere varie forme e muovere molti attori sociali: è la crisi sociale, la sfiducia dei cittadini nei confronti del sovrano, l’inverno del nostro scontento, tutto e il suo contrario. E’ la molecolarità delle società opulente che piegano le ginocchia, oggi, di fronte all’alba bugiarda della globalizzazione, ultima versione di se stessa.



Il movimento di Grillo & co. scalda i muscoli, ma non più i cuori, rosicchiando brandelli di potere nella corte che, ieri, aveva i contorni del film di Sorrentino, Il divo, e oggi rappresenta l’ultima Thule dell’occupazione delle casematte che contano. E’ il plebeismo targato Masaniello 3.0 che parla, male, la lingua di Balzac, il resto è altro.

I gilet gialli sono lo stato permanente della “comunità che viene”, di cui Giorgio Agamben scrisse una quindicina d’anni fa. Le strategie fatali di questo rassemblement molecolare non sono il ’68 riveduto e corretto e per questa ragione esso può trovare spazio in un’Europa che, allo stato attuale, ha tutto l’interesse di accogliere opposizioni incapaci di tagliare le unghie alla tigre. E’, in fondo, l’esito popolare del nichilismo: facciamo politica sapendo che essa non cambia le cose, ma ci permette di essere presenti in questo montante flusso della globalizzazione bancocentrica ed eccentrica. E’ l’esserci persistente dei flussi sociali a farla da padrone, ma, al di là dei timori e tremori di Macron (consolato da un leggero aumento del consenso), tanto rumore per nulla.



I gilet gialli possono permettersi il lusso di rimanere separati da tutto e tutti – destra e sinistra – perché essi sono il tutto del nulla contemporaneo. Pura reazione violenta contro il sovrano che altro non è se non la versione timida e pavida del reggente senza corona. Le due crisi – francese e tedesca – si sono incontrate perfettamente per gridare nel deserto che l’Europa è finita, da un lato, e dall’altro, mai rovinerà del tutto, perché il puntello, pronto all’uso, viene dalle piazze dei moltitudinari antagonisti che indossano i gilet gialli. Una dialettica necessaria, una perfetta inquietudine del negativo, che troverà il suo spazio come “opposizione” alle prossime europee.

Tutto scontato, non c’è che dire. Ancora una volta torna utile la formula geniale di Baudrillard: lo sciopero degli eventi.