Nel momento più drammatico degli scontri contro Maduro, eletto presidente del Venezuela dopo elezioni dichiarate irregolari dal grosso della comunità internazionale e appena insediatosi per un secondo mandato, Juan Guaidó, giovane capo dell’Assemblea nazionale e semi-sconosciuto leader dell’opposizione al governo, si è auto-proclamato presidente della repubblica bolivariana. Gli Usa e molti Stati Osa (Organizzazione Stati americani, ndr) lo hanno riconosciuto presidente, la Russia e la Cina appoggiano Maduro, l’Ue è favorevole a un processo democratico, l’Italia si è divisa. Irragionevolmente divisa. Le tensioni nel Paese, sanguinose, possono sfociare infatti in una guerra civile.



Maduro presidente è il frutto delle fraudolente elezioni del 20 maggio 2018. A riconoscerlo ci sono Cuba, Nicaragua, Bolivia, Russia, Cina e Turchia. Dittature vere e proprie o paesi che hanno evoluto le proprie costituzioni in modo tale da trasformare il ruolo di presidente in incarichi a vita. In Bolivia il tentativo è appena fallito.



Non solo: anche i gruppi terroristi Hamas ed Hezbollah hanno emesso due comunicati ufficiali dichiarando il proprio sostegno al leader del Partito socialista unito del Venezuela (Psuv). Le organizzazioni islamiste accusano il governo di Donald Trump di promuovere un “colpo di Stato” in Venezuela, omettendo le irregolarità del processo elettorale che Maduro avrebbe vinto.

Secondo Hamas, “il tentativo degli Stati Uniti di organizzare un colpo di stato è una continuazione della politica aggressiva americana […] e viola i principi democratici e la libera volontà del popolo”. Secondo loro, l’atteggiamento statunitense “rappresenta una minaccia per la sicurezza e la stabilità del mondo”.



Lo stesso tono è utilizzato nelle dichiarazioni di Hezbollah. In un comunicato divulgato dall’emittente libanese Al-Manar, si legge che “tutti sanno che l’obiettivo degli Stati Uniti non è quello di difendere la democrazia e la libertà, ma di appropriarsi delle risorse del paese e punire tutti gli stati che si oppongono all’egemonia statunitense”.

Il subcontinente latino-americano, che fino a pochi mesi fa era considerato un laboratorio di politiche progressiste, si trova adesso ad affrontare una crisi politica che rischia di mutarsi in una mattanza. Rifacendosi direttamente al bolivarismo rivoluzionario, l’ex leader venezuelano Hugo Chávez promosse un “socialismo”, il “Socialismo del XXI secolo”, basato su un’esaltazione della democrazia diretta e massicci investimenti sociali tesi all’inclusione delle classi svantaggiate, a cui si associavano un’esplicita posizione anti-statunitense e un progetto pan-latinoamericano. Con la morte di Chávez nel 2013, il meno fortunato successore Nicolás Maduro ha continuato a governare il Venezuela di fronte a una crescente ostilità interna ed internazionale. Guaidó, delfino di Leopoldo Lopez, storico avversario di Chávez e leader del partito di opposizione Voluntad Popular, ha giurato sulla Costituzione a Caracas, davanti a migliaia di persone, autoproclamandosi presidente ad interim della nazione e ha rivolto un invito alle forze armate affinché si impegnino a “ristabilire la Costituzione”.

Maduro, da Palazzo Miraflores, ha di contro bollato l’iniziativa del deputato dell’opposizione come un “colpo di Stato fascista”, esortando i suoi sostenitori a resistere contro il golpe orchestrato, secondo lui, tra le mura della Casa Bianca. Maduro ha anche interrotto i rapporti diplomatici con Washington e ha minacciato gli inviati statunitensi presenti in Venezuela, dando loro poche ore per lasciare il Paese.

Guaidó è stato immediatamente riconosciuto dall’amministrazione Trump e dal Canada, nonché dal segretario generale dell’Osa che riunisce 35 Paesi. Se il riconoscimento era prevedibile da paesi quali Brasile e Argentina, meno scontata era la legittimazione di Guaidó da parte dell’Ecuador, Paese vicino al progetto del Socialismo del XXI secolo fino a pochi mesi fa. Mentre l’Unione Europea, dopo aver assegnato il premio Sakharov per la libertà di espressione all’opposizione venezuelana, dichiara di sostenere l’Assemblea nazionale e il presidente Guaidó, il nostro paese non ha ancora preso una chiara posizione, ed il ministro degli Esteri è atteso in Parlamento soltanto tra alcuni giorni.

Il supporto della maggioranza dei paesi dell’America Latina a Guaidó è una chiara testimonianza dell’isolamento regionale in cui si trova Maduro. Con la fine del ciclo della sinistra latina, culminata con il trionfo di Bolsonaro, il Sudamerica ha virato verso destra. E nel continente non si è più disposti a fare sconti alla dittatura iniziata da Chavez e con i cui apparati di sicurezza ho avuto, insieme con l’ex ministro degli Interni spagnolo Jaime Mayor Oreca, duri confronti nel Venezuela del 2010 quando l’opposizione cominciava ad alzare la testa e cercava la solidarietà del Parlamento europeo. Allora i paesi sudamericani tacevano.

Ma se Maduro non può più contare su esecutivi amici in America Latina, a parte Stati marginali come la Bolivia e il Nicaragua, grandi potenze come la Cina, la Russia e la Turchia hanno invece subito criticato le interferenze statunitensi a Caracas e confermato il loro appoggio al presidente in carica. Il non-allineamento del governo di Maduro rispetto agli Usa ha una rilevanza economica e geopolitica di rilievo per Pechino e Mosca, che temono di perdere un prezioso alleato nel caso in cui il presidente in carica dovesse cadere.

L’economia del Venezuela è precipitata nel baratro. Le politiche catastrofiche di Maduro hanno poi peggiorato ancora di più la situazione. Per cercare di mantenere il proprio consenso, il presidente ha continuato a promuovere politiche di assistenzialismo sociale, finanziandole con la monetizzazione del disavanzo pubblico, portando quindi al regime di iperinflazione che sta distruggendo l’economia reale venezuelana. In aggiunta, l’amministrazione Trump ha promosso dal 2017 delle sanzioni economiche che hanno colpito direttamente l’economia di Caracas.

Il governo di Guaidó al momento non controlla alcun apparato dello Stato, a parte l’Assemblea nazionale, e non avrebbe neppure l’appoggio degli alti ufficiali dell’esercito. Senza il sostegno di una parte consistente delle forze armate, Guaidó, che ha infatti garantito l’immunità ai militari che si uniranno a lui per conquistarne l’appoggio, difficilmente potrà consolidare la transizione democratica nel Paese.

Ma perché Cina, Russia e Turchia si schierano con Maduro nonostante questo scenario così precario? Intanto per la controversa rielezione: è rimasto al potere grazie a voti di scambio, brogli e un’astensione da record; quindi le strategie del presidente per mantenere la presa sul paese, tra corruzione dell’esercito, gestione dei traffici illeciti e una popolazione stremata dalla crisi, “senza tempo né energia per la resistenza”; infine, le rivendicazioni dei venezuelani, secondo i sondaggi favorevoli nel 63% dei casi “a una soluzione negoziata per destituire Maduro”.

Lo scorso settembre il presidente venezuelano in persona è volato a Pechino per incontrare i vertici del Partito comunista, il ministro delle Finanze Simón Zerpa ha annunciato una “grande alleanza con la Cina” e le obbligazioni della compagnia statale Petróleos de Venezuela hanno raggiunto rendimenti del 22,4%. Gli analisti avevano nel frattempo stimato che il gigante asiatico avesse già concesso al Venezuela prestiti per 70 miliardi di dollari, la maggior parte dei quali da restituire in petrolio.

Di recente, Venezuela e Turchia hanno siglato accordi di cooperazione in settori quali l’industria mineraria, le infrastrutture, la difesa, gli aiuti umanitari, tanto che secondo alcuni esperti gli aiuti garantiti da Erdogan “avrebbero fornito un’ancora di salvezza a uno stato altrimenti collassato”. Al di là delle similitudini nell’esperienza e nella retorica dei due leader, entrambi beneficiano della collaborazione: i vantaggi del Venezuela sono ovvi, quelli turchi riguardano soprattutto le enorme riserve d’oro dell’alleato e una maggiore influenza internazionale.

Anni di sforzi e miliardi di dollari per trasformare il Venezuela in uno dei suoi più stretti alleati nell’emisfero occidentale: ora l’investimento della Russia potrebbe andare in fumo. Il primo ministro russo Medvedev ha definito gli eventi a Caracas un “quasi-colpo di stato”. Secondo Anton Troianovski l’indignazione sbandierata da Mosca cela una realtà scomoda: la scommessa multimiliardaria sulla costruzione dell’influenza russa in America Latina che ora è in pericolo.

Sul piano ideologico poi la sinistra latina ha smesso di guidare il Sudamerica. La vittoria di Chavez alle presidenziali venezuelane del 1998 inaugurò l’inizio di una fortunata stagione per la sinistra latina, dominatrice indiscussa della scena politica regionale fino al 2010. I governi di Lula e Roussef in Brasile, di Chavez in Venezuela, di Lagos e di Bachelet in Cile, dei coniugi Kirchner in Argentina, di Zelaya in Honduras, di Morales in Bolivia, di Correa in Ecuador, di Ortega in Nicaragua, di Lugo in Paraguay, di Funes nel Salvador e di Humala in Perù sono stati differenti espressioni della variegata sinistra sud americana. Nonostante le loro numerose divergenze, in particolare in materia di politica economica, essi hanno rappresentato la risposta endogena dei popoli latini agli alti livelli di disuguaglianza interna e alla speranza di una maggiore giustizia sociale. Eppure il potere dei partiti di sinistra nella regione è andato lentamente sgretolandosi tra sconfitte elettorali, scandali e crisi economica. Oggi la rovinosa caduta della sinistra latina può essere imputata o al fallimento della promessa di rinnovamento fatta da quei partiti, o al naturale corso della ciclica alternanza democratica.

Definire cosa sia una politica di “sinistra” è particolarmente complesso, se non un futile esercizio retorico. Nella poliedrica esperienza della sinistra latina la radice comune può essere identificata nella promessa di combattere povertà e disuguaglianza attraverso una più equa distribuzione delle ricchezze prodotta dalla crescita economica. La speranza che ha alimentato il consenso era che i governi di sinistra usassero lo stato come strumento politico per garantire un tetto, cibo, sanità, sicurezza, istruzione e opportunità ad ogni membro della società. Tra speranze disilluse e reale cambiamento bisogna quindi interrogarsi su quale sia l’eredità che la stagione rossa ha lasciata al continente sud americano.

Ecco perché l’atteggiamento della componente 5 Stelle del governo appare immatura e pericolosa per l’Italia. Nel tentativo di rincorrere un’immagine equivalente delle magliette di Che Guevara, il partito di Grillo confonde il disastro consumato da Maduro con l’evocazione fine a se stessa di un concetto di popolo abusato dalla nomenclatura chavista. I numerosi italiani del Venezuela sono tra coloro che più di tutti hanno sofferto la prepotenza e i ricatti di Chavez prima e Maduro poi. Per un governo che ribadisce in ogni circostanza lo slogan “prima gli italiani”, schierarsi per la fine della dittatura di Nicolas Maduro è un fatto oggettivamente inaggirabile e che chiede di prendere posizione in modo inequivocabile. Venezuela libre! Ahora! Ahora!