Barack Obama è stato spesso criticato per la ambiguità della sua politica in Medio oriente e per gli esiti disastrosi, soprattutto per le popolazioni coinvolte, dell’ideologica strategia del regime change. Malgrado la diversa impostazione di Donald Trump, è difficile rilevare cambiamenti in positivo e l’impressione è che l’ambiguità sia stata sostituita dall’estemporaneità, altrettanto pericolosa. Lo scorso 19 dicembre, Trump aveva comunicato il ritiro in tempi brevi dei circa 2mila soldati americani operanti in Siria. La decisione era stata criticata anche nel suo partito e aveva portato alle dimissioni di Jim Mattis, Segretario alla Difesa, che sosteneva invece un ritiro graduale e la necessità di non abbandonare le milizie curde alleate degli Stati Uniti.
Sembra però che Trump abbia cambiato opinione e sia ora in favore di un ritiro meno affrettato, come richiesto a suo tempo dal dimissionato Mattis. Il ripensamento pare essere avvenuto dopo la visita di Trump alla base militare in Iraq, dove avrebbe constatato che la minaccia dell’Isis non è scomparsa, come invece aveva affermato in precedenza. Secondo il senatore repubblicano Lindsey Graham, Trump vorrebbe anche evitare che il ritiro delle truppe avvantaggi troppo l’Iran e lasci i curdi esposti agli attacchi dei loro avversari, leggi la Turchia. Graham è un alleato di Trump, ma aveva criticato la decisione sulla Siria e aveva anche preso le distanze dal sostegno del presidente a Mohammed bin Salman nel caso Khashoggi.
Anche Francia e Regno Unito, impegnati militarmente in Siria e con cui il ritiro non è stato apparentemente concordato, hanno criticato la decisione di Trump, non ben accolta neppure dall’alleato per eccellenza: Israele. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha subito dichiarato che Israele continuerà a contrastare, perfino con maggiore intensità, la presenza iraniana in Siria. Netanyahu, coinvolto in diversi casi di corruzione, ha indetto elezioni anticipate per il prossimo aprile e Israele si trova ad affrontare questa nuova difficile situazione in piena crisi di governo. Non proprio un’ottima tempistica quella di Trump.
Il risultato finale è comunque molto negativo per l’immagine degli Stati Uniti: dopo sette anni di guerra, con distruzioni materiali e di vite umane enormi, il regime di Assad è ancora saldamente in sella, l’Iran ha rafforzato la sua presenza nell’area, la Russia è rimasta la potenza che dà le carte. Trump si è giocato la fiducia degli alleati, come dimostrano gli accordi tra curdi e governo siriano, sponsorizzati dai russi e non ostacolati dai turchi, che sembrano ormai più vicini a Putin che a Trump. Inoltre, sta cambiando l’atteggiamento di alcuni Stati arabi nei confronti di Assad: gli Emirati Arabi Uniti hanno deciso la riapertura, dopo sette anni, dell’ambasciata a Damasco, cui seguirà quella del Bahrain. E’ pensabile che queste mosse abbiano avuto il beneplacito dell’Arabia Saudita, l’altro alleato Usa attualmente in gravi difficoltà. Anche Sudan, Tunisia e Egitto stanno riaprendo rapporti, sia pure ancora limitati, con Damasco e si sta perfino discutendo di riammettere la Siria nella Lega Araba.
E l’Iran? Si presenta come vincitore, insieme a Damasco e Mosca, della lunga guerra in Siria, ma per il momento mantiene un atteggiamento cauto e diretto a rendere più “morbidi” i rapporti con la Turchia e a rafforzare quelli con il Qatar, in funzione antisaudita. Non è da dimenticare che Israele è l’unica potenza nucleare della regione: forse in questa ottica vanno letti gli avvertimenti di Putin sui pericoli di una guerra nucleare e l’esaltazione per i nuovi missili russi Avangard. Un messaggio non solo a Washington, ma anche a Israele.
La visita di Trump in Iraq, però, non ha avuto molto successo con le autorità locali, soprattutto tra parlamentari della maggioranza sciita, sia delle fazioni allineate con Teheran, sia tra quelle che se ne distanziano. Costoro hanno considerato la visita alla base militare statunitense uno sgarbo formale nei confronti dell’Iraq e il primo ministro iracheno ha cancellato il previsto incontro con Trump. Quest’ultimo avrebbe preteso che l’incontro avvenisse all’interno della base americana, cosa rifiutata dagli iracheni. Per diversi commentatori negli Stati Uniti la visita è stata un atto elettoralistico a fine interni. Si è in particolare sottolineata la frase in cui Trump affermava che gli americani erano stanchi di essere considerati dei “suckers”, dei fessi sempre disposti a togliere le castagne dal fuoco per gli altri. L’ennesima versione di “America First”, che ha messo in allarme più di un alleato.
Infine, nel gioco non poteva mancare la Cina, che non ha mandato truppe, ma ha firmato nel 2015 un accordo per prendere in gestione per 25 anni il porto israeliano di Haifa. Secondo quanto riporta The Jerusalem Post, la cosa non è stata accolta bene dagli Stati Uniti, che usano il porto come base per esercitazioni militari navali. I lavori cinesi nel porto, valutati in 2 miliardi di dollari, dovrebbero partire nel 2021, ma sembra che le autorità israeliane stiano riesaminando la questione, divisi tra le opportunità economiche offerte dai cinesi e la necessità di non peggiorare i rapporti con Washington. Un altro problema da risolvere per il governo israeliano che nascerà dalle elezioni di aprile.