NEW YORK — Ci siamo quasi. Pare che ce l’abbiamo fatta ancora una volta. Quantomeno pare che siamo riusciti a metterlo insieme e ad avere tutto pronto per “kick-off”, per la partenza di questo New York Encounter numero XI. Poi si vedrà.

L’undicesima volta, eppure, ormai alla vigilia, tante domande restano le stesse di sempre: cosa abbiamo dimenticato? C’è qualcosa che stiamo sbagliando? Riusciremo ad avere tutto in ordine per l’orario di apertura? Il budget “terrà”? Come andrà con i relatori? Come verranno accolti gli spettacoli? E le mostre? Avremo ancora più gente o vedremo le presenze calare, magari per una tempesta di neve che blocca mezzo paese?



Un po’ di legittimo timore e tremore ed altrettanto legittime domande a cui in questo momento non siamo in grado di rispondere. Tante domande eccetto una che non ci viene neanche in mente: perché lo facciamo. Anzi, mi correggo, ci viene in mente, ma a differenza delle altre, di questa conosciamo la risposta. E mentre negli anni tanti interrogativi restano, su questa cresce la certezza. Perché per tutti noi che lo costruiamo l’Encounter è un gesto di gratitudine. Per questo è così vivo, bello e lieto. Vivo, bello e lieto come la faccia di uno che si rende conto di aver ricevuto un gran dono e il suo grazie si legge nelle sue parole quanto nello sguardo ed in ogni piega del volto. Così noi desideriamo che la nostra gratitudine si legga in ogni istante, in ogni piega dell’Encounter, certamente nella portata dei tanti speaker che siamo riusciti a radunare, nella bellezza e nel valore delle mostre, nell’impegno degli oltre 350 volontari, nella cura amorevole del Kids’ Corner, nel cibo del Food Court, nella musica e nelle immagini che ci accompagneranno durante tutto il weekend, nel modo in cui ognuno, visitatore o volontario, a Dio piacendo si sentirà accolto, si sentirà a casa nel cuore di New York City. Sono questi i segni visibili di quel “Something to start from”, quel qualcosa da cui partire che è il tema dell’Encounter di quest’anno. Segni “visibili e seguibili”.



Rischiamo. Per fare il New York Encounter rischiamo tempo, soldi, energie. E non ci mettiamo il sovrappiù, quel che non ci costa più di un tanto, ci mettiamo tutto quello che la nostra libertà ci permette di metterci. In un’epoca in cui si vive di safe spaces, ci si rifugia in bolle asettiche dove ci si affida al “pensiero di gruppo” (cosa che ci risparmia la fatica di avere un pensiero nostro), un’epoca in cui la fa da padrone il conformismo spalmato copiosamente su tutto e tutti con una spruzzata di sedicente progressismo, in un’America sempre più impastoiata, invece di cercare un equilibrio senza volto e senza cuore noi ci ostiniamo a scommettere tutto su quel “something”. Come scriveva Simon Weil, cresciuta in un mondo completamente agnostico, “In fondo al cuore di ogni essere umano, dall’infanzia alla tomba, c’è qualcosa che avanza indomabilmente e che alla faccia di tutte le esperienze di crimini commessi, sofferti, vissuti, attende per sé non il male, ma il bene”.



Noi la gratitudine per il riconoscimento di questo “something” abbiamo imparato ad esprimerla così, come tentativo, con la vita di tutti i giorni, ed attraverso il lavoro di tutto un anno che culmina con un grande weekend che chiamiamo “Encounter”. E’ un cammino, un metodo. Chi l’ha imparato tra i chiostri dell’Università Cattolica 45 anni fa, chi l’ha scoperto magari il mese scorso in qualche angolo di questo paese.

E’ veramente qualcosa da cui partire.

Come and see!