L’ambasciatore francese è tornato in Italia. Una notizia, questa, capace di tranquillizzare molti. Uno scontro tra la seconda e la terza economia dell’Unione non era una bella cosa agli occhi di tanti. Ricordo la recente agitazione tra i parlamentari di Strasburgo in occasione della presenza del premier Conte, i quali chiedevano in maniera accorata il perché di un simile contrasto, che stava mettendo a dura prova la tenuta dell’Europa unita. Ciò ovviamente non ha impedito al liberale Verhofstadt di rinfacciare a Conte di essere succube dei suoi due vicepremier, ma insomma la tensione c’era ed era palpabile.



Molti di quelli che sono intervenuti erano chiaramente legati al grande Paese transalpino per ragioni culturali, di lingua o di nascita. Era come se attaccare la Francia fosse più grave di qualsiasi cosa, era come attaccare lo spirito europeo, così ben rappresentato dai nostri cugini agli occhi di molti. La Francia è la Francia, disse tempo fa il Presidente della Commissione europea Juncker di fronte a una platea di sindaci transalpini. E io, in un mio recente articolo, mi sono permesso di sottolineare che questo sarà anche vero, ma che l’Italia è l’Italia. Cosa ammessa anche da Verhofstadt in un buon italiano quando si è rivolto a Conte, ma ciò non gli ha impedito di definire il nostro Premier “un burattino”.



Ora l’ambasciatore francese è tornato, ma questo è un bene? È un bene cioè che l’Italia abbia tirato così tanto la corda da permettere a Parigi di richiamare il proprio rappresentante diplomatico per poi rimandarlo a Roma con una certa condiscendenza, dopo aver fatto capire cioè che il livello massimo di provocazione sopportabile da oggi in poi sarà molto più basso? Sono numerosi i dossier aperti, e non solo quelli riguardanti Alitalia. La Francia possiede circa 2.000 aziende italiane che danno lavoro ad oltre 200.000 persone, e questo è un fatto. Lo è pure domandarsi come mai i francesi abbiano tante proprietà nella penisola, a causa delle quali alcuni analisti hanno ipotizzato una politica predatoria della Francia nei confronti dell’Italia in tacito accordo con la Germania, alla quale verrebbe lasciata mano libera altrove. È un fatto, inoltre, che tale presenza francese, sventolata come un merito agli occhi di Roma, non è reciproca, e questo perché la Francia non ama che gli altri comprino a casa sua. Ed è un fatto che quanto la Francia fa in Europa, lo faccia a maggior ragione in Africa, dove dietro all’ormai famigerato “franco cfa” sta una politica predatoria fondata sul diritto di prelazione rispetto alle opportunità economiche e alle risorse naturali di ben 14 Paesi.



La Francia non vuole essere disturbata: non vuole esserlo in Africa, ma non vuole esserlo neppure, e a pari ragione, in Europa, dove qualsiasi azienda importante non è vendibile per ragioni di sicurezza nazionale (anche se produce latticini come la Danone). Eppure dovrebbe, dato che una chiusura a riccio del genere danneggia il mercato europeo, come pure lo sfruttamento africano che droga l’economia francese, la quale è fondata su una politica imperialista che non condivide nulla col tanto decantato illuminismo.

Voglio dire: è forse questa la Francia che merita le rimostranze accorate dei parlamentari europei quando viene attaccata dall’Italia? Di sicuro è la Francia che è riuscita a far passare dalla parte della ragione a quella del torto il nostro Paese allorché ha chiesto chiarimenti circa la politica africana di Parigi, tant’è che il ritorno dell’ambasciatore è stato spiegato come una presa d’atto di una ragionevolezza ritrovata da parte italiana. Per chi scrive, a essere poco ragionevole rimane invece la salvaguardia di un’ipocrisia grande come una casa, la “casa europea” dove la Francia di Macron è stata difesa a spada tratta contro accuse fondate, e dove, in effetti, molti iniziano a sentirsi a disagio se a sostenere le ragioni dell’Africa contro il capo di En Marche, e i poteri che rappresenta, è scesa in campo, al di là delle Alpi, la signora Le Pen.