E così è iniziato il conto alla rovescia per quello che, in ogni caso, sarà un giorno importante per la sorte del Venezuela: l’annunciato sabato 23 febbraio, data d’inizio della distribuzione degli aiuti a una nazione stremata e affamata, sta segnando partecipazioni sempre più significative come quella del presidente Cileno Sebastian Piñeira, che fin dal venerdì precedente sarà presente a Cùcuta, località situata al confine tra Colombia e Venezuela, per dare inizio all’organizzazione dell’emergenza umanitaria. Il Governo brasiliano sta solo scegliendo tra Pacaraima o Boa Vista, entrambe località nello Stato di Roraima, sempre al confine col Venezuela per dare inizio all’operazione.



Tutto questo mentre l’aeroporto di Cùcuta continua a ricevere aerei cargo ricolmi di medicinali e cibo e si sta mettendo in moto una delle catene umanitarie più colossali mai registrate nella storia per una nazione, il Venezuela, che ormai non può più attendere le prepotenze del dittatore Maduro e le sue minacce di sabotare l’evento anche attraverso l’installazione di container e cisterne che in pratica bloccano l’accesso sulle autostrade che dalla frontiera con la Colombia dovrebbero connettere con l’intero Paese. Maduro ha annunciato l’arrivo, direttamente all’aeroporto di Caracas, di 300 tonnellate di aiuti provenienti dalla Russia, medicinali di alto costo attualmente impossibili da trovare in Venezuela. Anche se non si sa ancora nulla di tale invio, questa dichiarazione ha di fatto smascherato quello che il dittatore ha sempre negato: l’emergenza umanitaria che affronta il Paese. Oltretutto ha aggiunto che il Venezuela non respingerà aiuti che arriveranno, ma solo tramite i canali delle Nazioni Unite.



In una situazione tanto delicata mancava solo l’intervento del Presidente statunitense Trump che non ha perso occasione, come nel suo stile, di minacciare a destra e a manca il regime di Caracas, dicendo che “Sono qui (a Miami, ndr) per proclamare che sta per aprirsi una nuova epoca in America Latina… Oggi i nostri cuori sono pieni di speranza per la determinazione di milioni di venezuelani, il patriottismo della loro Assemblea nazionale e l’incredibile coraggio del Presidente ad interim Guaidó”. Fin qui tutto normale, ma poi ha lanciato uno dei suoi ultimatum “classici” stile Kim Jong-un (Presidente di una Corea del Nord arcinemica e ora alleata…): “Perderete tutto, ha detto rivolto ai capi militari dell’esercito venezuelano, “se non accettate l’amnistia propostavi da Guaidó” e via di questo passo…



Sull’altro fronte sono le dichiarazioni della numero due del regime, ed ex ministra degli Esteri, Delcy Rodriguez, a tenere banco, secondo cui gli aiuti sono costituiti da medicinali avariati e cibi avvelenati atti a provocare la morte del popolo per malattie e tumori. Sebbene certe dichiarazioni paiano tratte dalla famosa pellicola di Woody Allen “Il dittatore dello Stato libero di Bananas” (ricordate? Quella in cui il leader della guerriglia, una volta al potere proclamatosi Presidente in un ipotetico Stato Centroamericano, dichiarò come da quel momento la lingua ufficiale del Paese sarebbe stata lo svedese… come si vede la realtà supera la fantasia, purtroppo), occorre a questo punto fare un bilancio dell’attuale situazione, che vede ormai Maduro completamente isolato dal mondo, specie da quando si è diffusa la risposta del Santo Padre alla sua lettera appello in cui lo chiama “Signor Maduro” anziché “Presidente”, facendogli inoltre sapere, e a chiare lettere, di non essere più disposto, come in passato, a essere usato come parafulmine o entità diplomatica atta solo a ritardare sine die qualsiasi soluzione.

Pare inoltre che il dittatore non possa più contare sull’esercito, anche se le ultime dichiarazioni rilasciate da Maduro ieri parlassero di ordine di pattugliare le frontiere. In pratica lo sta isolando internamente, in una manovra che potrebbe sviluppare un golpe bianco al suo interno destituendolo. Ormai a sostenerlo internazionalmente c’è non solo, in linea molto teorica, una Russia che però a livello economico lo sta abbandonando, ma anche Cuba, il cui legame con il Venezuela è vitale anche per la propria sopravvivenza energetica e che negli anni Castro ha saputo, prima con Chávez e ora con il delfino Maduro, modellare in un’alleanza fortissima, puntellata dalla presenza in territorio venezuelano di una task force di 30.000 elementi in massima parte militari e intelligence che stanno supportando un regime in agonia.

Ma c’è anche un altro alleato, questa volta potentissimo, sul quale il regime venezuelano, ormai internazionalmente isolato, può contare: il narcotraffico, un vero e proprio Stato nello Stato dotato di potere e capitali ingenti, che finora ha potuto contare sulle più alte gerarchie di Caracas al suo fianco, che gli hanno permesso di disporre di un intero Paese al suo servizio. Dopo essere stato estromesso dalla natia Colombia, i narcos hanno penetrato altre nazioni (come ad esempio l’Argentina), ma hanno trovato nel regime venezuelano l’alleato più forte. Qui sta il punto: l’oro bianco sta soppiantando quello nero (il petrolio) come fonte di ricchezza, perché ancora sotto il controllo di cartelli legati con l’attuale potere politico.

In fondo il problema è tutto qui, ma questo lo si sapeva da tempo, anche se non veniva rivelato: lo Stato venezuelano può essere costretto, anche attraverso il grande lavoro diplomatico che finalmente con l’accordo di Montevideo di due settimane fa sta fornendo un forte aiuto a un’opposizione che ha trovato in Guaidó il proprio leader di riferimento, a cui si somma la lettera papale, a dialogare e a indire finalmente libere elezioni, oltre che a far partire gli aiuti internazionali. Ma lo Stato parallelo controllato dai narcos è la vera incognita che può costituire la barriera tra la soluzione pacifica e quella che appare, purtroppo, ancora possibile: il confronto armato. Prove ne siano le dichiarazioni del ministro della Difesa, il generale Vladimir Padrino, che ha detto che le Forze armate saranno inviate alla frontiera per preservarne l’integrità da violazioni del territorio.

Aspettiamo l’alba del 23 e speriamo che il buon senso possa avere il sopravvento: nel frattempo, in maniera silenziosa, le tribù indigene dell’alto Orinoco, come di altre zone della selva venezuelana, non hanno atteso il fatidico giorno e, attraverso la rete fluviale, stanno facendo penetrare gli aiuti all’interno del Paese.